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Lavoro: Randstad, più aperti a 'diversità'̀ ma 27% dipendenti discriminato

06 ottobre 2015 | 15.52
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Lavoro: Randstad, più aperti a 'diversità'̀ ma 27% dipendenti discriminato

L'87% dei lavoratori italiani apprezza la diversità nel luogo di lavoro e il 72% riscontra nella sua azienda una cultura aperta e inclusiva. Ma, nonostante l'apparente apertura alla diversità, nell'accettazione delle differenze di età, genere, religione, etnia o orientamento sessuale il nostro Paese ha ancora un gap da colmare. Perché il 27% dei dipendenti denuncia di essere stato oggetto di discriminazione generazionale sul lavoro, il 26% di genere, il 19% per il suo orientamento sessuale, il 18% per l'appartenenza etnica, il 17% per quella religiosa.

È quanto emerge dal Workmonitor, l'indagine trimestrale realizzata in 33 Paesi del mondo da Randstad, secondo operatore mondiale nei servizi per le risorse umane, che nel terzo trimestre 2015 si è focalizzata sul complesso tema della discriminazione tout court nei luoghi di lavoro. La popolazione di riferimento dello studio è costituita dalle lavoratori dipendenti con età compresa tra i 18 e i 67 che percepiscono un compenso economico per la loro attività (405 interviste in Italia).

E la ricerca evidenzia che nei giudizi degli italiani non mancano i risultati contraddittori: il 77% ritiene che l'orientamento sessuale non sia un problema per il datore di lavoro, ma il 69% è convinto che un transessuale abbia più difficoltà nel trovare un impiego in Italia.

“La fotografia scattata dal Workmonitor sulla discriminazione nei luoghi di lavoro - afferma Valentina Sangiorgi, Hr Director di Randstad Italia - ci restituisce, secondo il punto di vista dei lavoratori italiani, la prospettiva di una cultura generalmente aperta e inclusiva. Una buona notizia per il business, poiché molti studi hanno dimostrato come team diversificati producano migliori prestazioni e maggior coinvolgimento dei dipendenti".

"Ma la nostra indagine avverte anche sul fatto che, in Italia come in tutto il mondo, una cultura improntata all'inclusione - spiega - non è sufficiente a metterci al riparo da esperienza di discriminazione, che si riscontrano ancora con troppa frequenza. Le organizzazioni devono impegnarsi per superare ogni forma discriminatoria, con il coinvolgimento di tutti i livelli aziendale”.

Il dato che l'87% degli italiana apprezza la diversità nel luogo di lavoro è pari alla media globale e lancia un messaggio di tolleranza e apertura del nostro Paese, si osserva, ma è leggibile anche in controluce come una difesa indiretta dalla potenziale accusa di atteggiamenti discriminatori e, viceversa, come la volontà di presentare sé stessi secondo il modello più 'politically correct'. Quanto al 72% dei lavoratori in Italia che riscontra una cultura aziendale aperta e inclusiva nell'attuale luogo di lavoro, appare un buon risultato, seppure inferiore alla media mondiale (77%) e ancora lontano dai valori medi del Nord Europa (81%).

Il sospetto di una narrazione più evoluta della realtà emerge però, dice Randstad, da qualche elemento di contraddizione nei giudizi dei lavoratori. Per il 77% l'orientamento sessuale non costituisce un problema per il proprio datore di lavoro (in linea con la media globale, ma in Europa si raggiunge l'80%) e - allargando il campo di indagine - per il 52% non lo è in generale nel Paese. Eppure, il 69% ritiene che trovare lavoro oggi sia più difficile per un transessuale (più che per la media globale, 66%).

Nonostante le premesse che indicano un contesto di apertura e inclusione, una cosa è certa, ammette Randstad: la discriminazione sul luogo di lavoro è ancora una realtà in Italia, come nel resto del mondo. Non c'è nazione oggetto dell'indagine del Workmonitor, infatti, in cui una cultura apparentemente aperta e inclusiva sia sufficiente a tutelare dalla disparità di trattamento.

In Italia, il 17% dei lavoratori dichiara di essere stato oggetto di discriminazione religiosa, il 18% razziale, il 19% basata sull'orientamento sessuale. Addirittura il 26% denuncia di essere stato discriminato per genere e il 27% per età. Nel confronto globale, rispetto a questi parametri il nostro Paese si posiziona nella media, con il Lussemburgo e la Slovacchia che mostrano i punteggi più bassi e l'India indubbiamente il Paese con il più alto tasso di discriminazione sul lavoro.

Analizzando il campione dei rispondenti italiani, si scopre come la discriminazione si riscontri più nella fascia giovane che in quella degli adulti (oltre i 44 anni). Una sensibile differenza che probabilmente è l'effetto di una diversa percezione tra vecchie e nuove generazioni, poiché l'evoluzione culturale spinge i giovani a identificare più chiaramente i diritti civili e le occasioni in cui questi sono negati.

Ma quanto la cultura e la reputazione dell'azienda sono importanti nella ricerca di lavoro? Per gli italiani moltissimo. Anche se l’accento viene posto prima di tutto sui contenuti strettamente professionali (il 91% dei lavoratori si basa principalmente sui contenuti del lavoro), c'è un'ampia aspettativa sugli aspetti qualificanti. Nella ricerca di lavoro, il 93% degli italiani si dichiara “molto attento alla reputazione dell'azienda” (sesto posto al mondo, ben al di sopra alla media globale pari all'88%). E l'86% nella ricerca di un impiego è interessato a sapere se esiste compatibilità̀ tra sé e la cultura aziendale (media globale 87%).

“Almeno sul piano teorico, l'attenzione rivolta a questi criteri è indicativa della volontà̀ dei lavoratori italiani di inserirsi in un ambiente di alto profilo - commenta Valentina Sangiorgi - anche dal punto di vista della cultura e della reputazione. Un segnale che sottolinea ancora una volta come la qualità̀ della vita nell’ambiente di lavoro sia da tenere in adeguata considerazione dalle aziende dal punto di vista dell'employer branding, sia per attrarre i candidati giusti che per fidelizzare il personale esistente”.

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