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Migranti: il giuslavorista, sì a lavoro ma non può essere coatto

18 agosto 2016 | 12.52
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Migranti: il giuslavorista, sì a lavoro ma non può essere coatto

Far lavorare i migranti, anche con lavori socialmente utili, si può ma occorre fare attenzione ad alcuni aspetti normativi. Il tema del lavoro per chi ha fatto domanda d'asilo o è rifugiato "è un tema complesso e va affrontato con una visione d'insieme", spiega a Labitalia Giampiero Proia, giuslavorista, fondatore e presidente dello Studio Legale Proia & Partners, professore ordinario di Diritto del lavoro alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre.

"Intanto va fatta una premessa -dice Proia-: in Italia non esiste il lavoro coatto e quindi ci vuole la disponibilità a lavorare di chi sta nei centri di accoglienza. Dunque non si può imporre il lavoro. Forse -ragiona Proia- se uno non è disponibile ad impegnarsi, ho un titolo di legittimità per respingere la domanda, anche perchè nella nostra Costituzione, all'art.4 secondo comma, si dice che 'ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società'".

"Insomma, c'è in Italia un diritto-dovere a svolgere un'attività socialmente utile per la collettività", spiega il giuslavorista.

L'altro aspetto da tenere in conto nel caso di lavoro per i migranti dei centri, dice Proia, è la retribuzione ed è "anch'esso legato alla Costituzione". "Nella nostra Carta è previsto il diritto a 'una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa'", spiega il giuslavorista citando l'art. 36 della Costituzione.

"E questo minimo retributivo al di sotto del quale non si può andare -aggiunge Proia- è individuato dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Dunque pagare 'qualcosa di meno' questi lavoratori potrebbe confliggere con l'art. 36. Si potrebbe però pensare -ipotizza Proia- a un sistema che prevede l'integrazione tra il minimo contrattuale e i costi dell'accoglienza, quelli cioè erogati per vitto spese sanitarie e quanto altro, che potrebbero essere detratti dalla paga base. Ma l'insieme delle due voci dovrebbe arrivare al minimo contrattuale".

"Del resto -osserva Proia- il Codice Civile prevede la possibilità di una retribuzione anche in natura. Il caso più noto è quello del lavoro domestico: se alla colf si dà anche vitto e alloggio, si può dare una retribuzione più bassa".

Alcuni comuni o enti pubblici hanno trovato il modo di far lavorare i migranti, finanziando progetti di volontariato, magari con piccole cifre. "Il volontariato così come i Lsu (i lavori socialmente utili), sono strumenti legali -afferma Proia- che se utilizzati non comportano l'obbligo della retribuzione contrattuale".

Senza voler entrare nel dibattito politico o "in polemiche strumentali", però Proia avverte: "Occorre in questo caso fare attenzione al problema sociale che ne può derivare: con gli Lsu non abbiamo avuto una stagione felice perchè abbiamo creato una sacca di disoccupati con altissime aspettative di stabilizzazione. Un'esperienza da non ripetere", conclude il professore.

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