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Mo: nel campo profughi di Ayda, tra murales e sogni di un futuro migliore

16 aprile 2015 | 19.30
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Alle porte di Betlemme vivono 5.500 profughi palestinesi nel primo campo costruito in Cisgiordania. La disoccupazione è al 40 per cento

Mo: nel campo profughi di Ayda, tra murales e sogni di un futuro migliore

Fatima ha poco più di 20 anni, un marito, è madre di due gemelli e si sente "in prigione". Sogna un "futuro migliore" per i suoi figli e che riescano a finire la scuola. Fatima è una dei 5.500 palestinesi che vivono nel campo profughi di Ayda, alle porte di Betlemme. In questo angolo di Cisgiordania, circoscritto da un muro di cemento costruito dalle autorità israeliane per motivi di sicurezza, la vita sembra sospesa. Al centro del campo c'è una scuola costruita dall'Unrwa (l'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi): oggi i bambini non si sono presentati perché ha piovuto. Così almeno ci spiegano alcuni operatori dell'Unrwa che ci accolgono all'ingresso dove campeggia la scritta 'Welcome to Ayda camp - 1948'.

Muri anneriti dal fuoco che testimoniano i recenti scontri tra gli abitanti del luogo e le forze israeliane, dominano la scena. Su uno è dipinto un immenso murales che mostra l'arresto di un dimostrante. "Non possiamo vivere. Per questo aspettiamo la morte", si legge sul murales che campeggia davanti alla scuola. Intorno all'edificio c'è solo degrado: i cassonetti traboccano di rifiuti, le case sono ruderi, ovunque ci sono parabole antiquate e detriti.

Il personale delle Nazioni Unite ci spiega che nel campo, il primo creato in Cisgiordania, la situazione e' sempre più difficile. "Tre sono i problemi principali per la gente che vive qui: affollamento, crisi economica e sicurezza", affermano fonti Unrwa che preferiscono mantenere l'anonimato. Tra gli abitanti di Ayda la disoccupazione raggiunge picchi del 40% e la gente non possiede nulla. Il terreno dove sorge il campo è di proprietà del governo giordano e lo stesso vale per le case, o meglio le baracche dove vivono i profughi, in gran parte originari di Gerusalemme sud.

Il campo rappresenta per le forze israeliane un problema di sicurezza. I soldati si trovano in una base ai margini di Ayda e quando la situazione diventa 'calda' fanno irruzione passando da un cancello di metallo blu posto in cima a una breve salita. Secondo l'Unrwa, nel 2014 ci sono stati 137 incidenti che hanno provocato 281 feriti e due morti: un bambino colpito al petto e un'anziana. "Nel campo l'economia e' strangolata, c'è insicurezza alimentare e un alto livello di povertà. Ma il nodo fondamentale ' l'ingiustizia dell'occupazione (israeliana, ndr)" afferma ad Aki-Adnkronos International il portavoce di Unrwa, Christopher Gunness. "Fondamentalmente quello che vediamo qui e' un fallimento politico - aggiunge - abbiamo bisogno di un'iniziativa politica che spinga a rivedere la politica di occupazione della terra palestinese".

Attraversando alcune vie del campo profughi si leggono slogan inneggianti a Fatah e Hamas, ma "nessuna fazione politica ha il controllo di Ayda", tengono a precisare alcuni abitanti del luogo. Su un muro colpisce l'immagine di una bandiera palestinese con scritto "Torneremo", in riferimento al ritorno dei profughi nelle terre da dove sono stati espulsi dagli israeliani. Al fianco c'è la lista di tutti i quartieri di origine degli abitanti del campo: tra gli altri si leggono Jarash, Beer Shebah, Shinfat e Beit Awa.

Akram Warah ha 48 anni ed è un ingegnere civile nato ad Ayda. Racconta di essersi laureato nel 1985 a Baghdad e di aver perso il lavoro prima in Iraq e in seguito alla seconda Intifada con un'azienda americana. Alcuni anni fa ha deciso di tornare nel campo dove ha aperto un negozio di monili. "La vita nel campo e' difficile, non ci sono spazi, le nostre case sono piccole. L'economia in questa zona e' depressa. Dobbiamo andare fuori per lavorare, ci sono i muri e servono i permessi, ma qui non c'è niente", dice ad Aki. Nel suo negozio vende le 'chiavi del ritorno', il simbolo dei rifugiati che rappresenta la chiave con la quale sperano di rientrare un giorno nelle loro case, anche se la disillusione su questo punto è molto alta. Una chiave immensa è issata sopra a un arco al centro di una strada.

Da un simbolo a un altro. Lì vicino, su un altro muro, spunta il disegno di Handala, il bambino girato di spalle ritratto in tutte le opere del fumettista Naji al-Ali, assassinato a Londra in circostanze misteriose e profugo a sua volta. Fuori dal campo ancora murales inneggianti alla Palestina. In un angolo spunta la colomba della pace con il giubbotto antiproiettile di Bansky.

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