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"Se la prima epidemia social diventa pandemia di odio"

04 febbraio 2020 | 15.54
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L'analisi dello psichiatra: "Rete sorda alla scienza alimenta contagio emotivo e psicosi irrazionale"

(Foto Afp)
(Foto Afp)

di Paola Olgiati

Nuovo coronavirus cinese: un'epidemia social, la prima della storia dei tempi, che diventa pandemia di odio. Un sentimento che viaggia più veloce della malattia, nutrito da "una Rete completamente e incomprensibilmente sorda alle ragioni della scienza, che alimenta contagio emotivo e psicosi irrazionale". E' l'analisi consegnata all'AdnKronos Salute dallo psichiatra Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute mentale dell'Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano.

Nell'epidemia ai tempi dei social, osserva l'esperto, "questi strumenti tradiscono gli aspetti più 'porosi'" che manifestano se usati male. "Porosi nel senso che fanno acqua" attraverso falle difficili da chiudere, "dando voce ad allarmi e paure infondate", ma soprattutto trasformando in tsunami "l'onda lunga dell'attacco a tutto ciò che è competenza e scienza. Inquieta - riflette Mencacci - come tutto ciò riesca in tempi incredibilmente brevi a formare, compattare e consolidare una costellazione di pensiero che è sempre pensiero paranoico". Un mondo immaginario "dove la Terra è piatta e nessuno è mai arrivato sulla Luna". Oppure, come in questo caso, "dove c'è il 'diverso' che porta malattie, o il 'cattivo' che si nasconde dentro un laboratorio e per casualità, distrazione o interesse lascia scappare un virus nemico dell'umanità".

"La paura per quello che non si vede", magari perché microscopico come un virus, spiega lo psichiatra, "è ancestrale e alla base di tutto ciò che da millenni l'uomo tende ad affidare alla sfera del magico o del divino". Nell'era dei social, tuttavia, "questa paura non riesce a trovare di fronte a sé il minimo schermo cognitivo: l'allarme è automatico, immediato, senza mediazione né consapevolezza".

In un contesto simile accade che la scienza venga negata due volte. "Sia perché, per definizione, è portatrice di ragione - ricorda Mencacci - sia perché ha in sé valori di umanesimo, solidarietà e compartecipazione" che "il timore del contagio rifiuta, spingendoci in una dimensione in cui anche la persona più vicina è un potenziale nemico dal quale difendersi. In questo senso il coronavirus ai tempi dei social diventa un potentissimo alleato di ciò che i social maggiormente enfatizzano: l'individualismo più sfrenato", condizione facilmente strumentalizzata dall'odio: "Chi non ama l'umanità non la tranquillizza - mette in guardia l'esperto - La terrorizza, invece, perché nel terrore i prevaricatori hanno sempre la meglio".

Sulla corona di questo virus, non nega infine lo psichiatra, sono in molti quelli che ci vogliono 'mettere il cappello'. L'impressione, cioè, è anche quella di un virus 'tirato per la giacca' da più parti e per diverse ragioni. Da un lato "usato in modo politicamente scorretto come un'arma che mette l'uno contro l'altro, per evidenziare senza motivo differenze etniche e culturali e alimentare la diffidenza verso gli altri". Dall'altro sfruttato per giustificare certi narcisismi mediatici, la voglia di esserci e di apparire.

Ma in conclusione, qual è il vaccino psicologico che possiamo 'assumere' per proteggerci e non cadere in queste trappole? "Dovremmo realisticamente prendere atto del fatto che il nostro cervello fa alcune cose in automatico - risponde Mencacci - Di fronte a una minaccia entra correttamente in allerta, una modalità utile a far scattare un'azione preparatoria, adattativa e difensiva". In epoca social, però, "la distanza fra mettersi in allerta e farsi possedere dalla paura viene annullata". Dobbiamo ritrovarla, ammonisce l'esperto. E lo spazio che separa l'allerta dalla paura può essere riempito solo con "la cognizione, la ragione, la fiducia nella scienza e la consapevolezza che nei secoli è lei ad averci dato gli strumenti per combattere nemici un tempo mortali".

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