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Salute: dalle trincee alle fabbriche, l'eredità della psicologia del soldato

12 novembre 2015 | 18.54
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(Dalla locandina dell'evento 'La psicologia del soldato')
(Dalla locandina dell'evento 'La psicologia del soldato')

In tempi di 'guerra totale', di milioni di uomini comuni catapultati sul fronte a combattere, con la morte e la devastazione negli occhi, il grido di battaglia "Avanti Savoia" non bastava più. Furono gli psicologi a fare la differenza. L'eredità del loro lavoro è sopravvissuta alla Prima Guerra mondiale. Dalle trincee al mondo moderno, alla vita in fabbriche, scuole, aziende: al termine del conflitto la 'psicologia del soldato', le soluzioni messe in campo per gestire un esercito di massa, condizionarono gli anni successivi, aprirono un filone e vennero applicate a settori diversi della vita civile e dell'organizzazione sociale. Altri 'campi di battaglia', altre masse da organizzare.

Il soldato della Grande guerra "ci appare sotto questo punto di vista come un'esasperazione tragica dell'uomo moderno", spiega all'AdnKronos Salute Dario De Santis, assegnista di ricerca nel Dipartimento di psicologia dell'università di Milano-Bicocca. Lo studioso, nell'ambito di un progetto portato avanti nel centro interdipartimentale di ricerca Aspi (Archivio storico della psicologia italiana), ha ricostruito l'esperienza personale e scientifica degli psichiatri e degli psicologi italiani al fronte, seguendo le tracce lasciate dentro carteggi impolverati, documenti, scritti che oggi affollano l'archivio del Polo di Archivio storico della Biblioteca di ateneo (Past).

Oggi a Villa di Breme Forno (Cinisello Balsamo) li racconta al pubblico, con intermezzi teatrali, in occasione di un appuntamento inserito nella rassegna 'Curiosamente - Aperitivi culturali a Villa Forno' e nelle iniziative legate al Centenario della Prima Guerra Mondiale. Dagli archivi saltano fuori istantanee in bianco e nero di personaggi come lo psicologo e psichiatra Giulio Cesare Ferrari che si è occupato a lungo del morale del soldato e in un articolo offre la sua interpretazione della disfatta di Caporetto: una sconfitta non solo militare-strategica, ma psicologica di soldati impauriti e indeboliti, sfibrati dalla propaganda pacifista.

Sul fronte italiano 20 mila casi di psicosi e nevrosi in un anno

E ancora il neuropsichiatra Vito Massarotti, chiamato alle armi allo scoppio del primo conflitto mondiale. In un capitolo della sua autobiografia, 'La tragedia di un galantuomo', racconta la sua esperienza. "Partito come ufficiale medico - spiega De Santis - venne mandato a lavorare in un servizio avviato per contrastare la diffusione delle nevrosi e psicosi di guerra". Condizioni diffuse: "Non ci sono dati ufficiali, ma solo per il primo anno di guerra si parla di circa 20 mila casi sul fronte italiano" .

La psicologia negli anni della Grande guerra, continua De Santis, "mette in luce una necessità: c'era un esercito di massa, fatto di contadini e operai, non soldati professionisti, che andava organizzato e gestito secondo principi scientifici da individuare. A farlo ci pensarono gli psicologi. Lo studio in trincea si concretizza in consigli ai vertici militari. Per avere soldati coraggiosi, spiegarono, vanno fatti riposare e alimentati bene, bisogna evitare che abbiano freddo. Per ottenere prestazioni efficaci, va detto loro che la disciplina militare è l'unica arma per combattere il nemico, una chance di sopravvivenza. Bisogna fare in modo che i soldati si tolgano i vestiti civili e indossino una divisa, che deve diventare la loro nuova identità. In trincea devono lavorare il più possibile per non pensare e rischiare di impazzire. Sulle loro teste si costruiscono tettoie per evitare che si sentano scoperti perché, anche se un po' di paglia non può niente contro un obice da 305/17, a livello psicologico aiuta".

La lezione degli anni bellici ispirò i test di selezione per gli autisti dell'Atm

E il discorso continua anche dopo la guerra. "Ciò che gli psicologi studiano in trincea, al termine della guerra cominciano ad applicarlo nelle scuole e nelle fabbriche - ripercorre De Santis - Come il bravo caporale doveva formare il soldato per muoversi in una massa organizzata che rispondesse agli ordini, allo stesso modo la società doveva produrre soggetti efficienti, masse di lavoratori che si muovono bene insieme nella vita di fabbrica, in una società meccanica e di produzione di massa. La psicologia doveva diventare la disciplina in grado di massimizzare quei rapporti fra uomo e macchina".

Un esempio dell'eredità della psicologia del soldato? "Lo ritroviamo nell'attività di padre Agostino Gemelli", osserva l'esperto. Lo psicologo era già famoso a Milano, racconta. "Apre il primo laboratorio psicofisiologico presso il Comando supremo dell'esercito, per i militari e per la selezione degli aviatori. L'idea era che un esame sperimentale psicologico può determinare in maniera scientifica chi è adatto a pilotare un aereo". In una guerra moderna non si potevano mettere macchinari costosi in mano a chiunque. "Serviva una fotografia psichica e fisiologica per selezionare e orientare l'aviatore scelto, a seconda delle sue caratteristiche, su un volo acrobatico tipo caccia o su aerei di osservazione. Questa attività è un grosso successo: più di 18 mila candidati passeranno durante la guerra da questo laboratorio, con percentuali di esclusione fra il 30 e il 40%".

Fu un punto di svolta. Dopo il ritorno alla vita civile, vengono aperti laboratori di psicologia del lavoro. "Un esempio di questo filone sono i test formulati in Atm, l'azienda trasporti milanesi che potenziò e sviluppò un laboratorio esistente di psicotecnica, in cui vennero studiati e selezionati gli autisti di mezzi pubblici. Insomma - conclude De Santis - la psicologia esce rafforzata dalla Grande guerra che mise in luce tutte la sua potenzialità applicativa".

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