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Un pancione sotto il camice, storie di mamme (precarie) in ricerca

12 luglio 2018 | 17.01
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Da sinistra Giusi Caldieri e Tiziana Lischetti
Da sinistra Giusi Caldieri e Tiziana Lischetti

Giusi, 38 anni e due figlie. Professione: ricercatrice. Per amore del laboratorio ha lasciato la sua Messina dopo la laurea in Farmacia nel 2004. Oggi lavora all'Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano e si è guadagnata un assegno di tipo A all'università degli Studi del capoluogo lombardo. Di recente ha vinto il Bando giovani ricercatori della Fondazione Cariplo. Le regole per presentare domanda prevedono che i candidati debbano aver finito il Phd (dottorato di ricerca) da un minimo di 2 a un massimo di 7 anni. Per Giusi Caldieri era passato più tempo, ma una clausola del bando dà la possibilità di capitalizzare gli anni di maternità (fino a 18 mesi per bambino) prorogando i termini, e quindi ha potuto partecipare.

Si tratta di un criterio introdotto nel 2015, allora inedito in Italia e ancora poco diffuso, mutuato dall'European Research Council (Erc). "Mi è sembrato positivo, dà un valore alla maternità. Nella vita quotidiana talvolta è diverso", ammette. Lo testimoniano all'AdnKronos Salute alcune ricercatrici che chiedono di restare anonime e raccontano di contratti in scadenza non rinnovati di fronte a un pancione, con la proposta: "Torna quando hai finito e riprendiamo il lavoro". In caso di maternità di solito si va incontro al congelamento della borsa ed è senz'altro una tutela per il progetto di ricerca della neomamma, che può riprendere da dove aveva lasciato per prendersi cura del suo bambino e prorogare i tempi di consegna.

"Ma in un settore dominato dal precariato, molti contratti non prevedono nulla di scritto in fatto di tutele - dicono le intervistate - Così, più spesso di quanto si pensi, le ragazze non hanno neanche il congedo di maternità obbligatoria pagato dall'Inps". E' il lato oscuro della ricerca, che in pochi conoscono. E con il grant congelato significa stare per 5 mesi senza un'entrata economica, col bebè appena nato. "Quando non viene scandito nessun diritto, tutto - dalle ferie all'astensione facoltativa e l'allattamento - va concordato e dipende dal buon cuore del capo".

In passato andava anche peggio: "Persino grandi charity ti facevano firmare una lettera che prevedeva la revoca del grant in caso di gravidanza o malattia che si protraeva più di 3 mesi - racconta una scienziata - e noi ci dicevamo: veniamo arruolati per combattere le malattie, ma se ci ammaliamo noi ci lasciano a casa. Oggi almeno c'è la sospensione temporanea". E' un patto tradito quello tra le donne in ricerca e l'Italia? "Certo qualcosa da cambiare c'è per garantire più dignità", fanno notare le intervistate. Perché l'età fertile coincide con gli anni in cui si è nel pieno della carriera in laboratorio e "non si può fare finta di niente".

"I figli li cresci mentre non hai nulla di fisso. Io per esempio ho un assegno di ricerca che durerà 2 anni", riflette Giusi che si ritiene fortunata perché ha lavorato in maniera continuativa. Il suo sogno sarebbe intraprendere la carriera accademica. Come funziona? Se la legge resta invariata, sia con 3 anni di assegni di ricerca che con un contratto triennale da ricercatore a tempo determinato di tipo A, si può concorrere per diventare ricercatore di tipo B, sempre a tempo determinato. Poi il passo successivo sarebbe la carica di professore associato, con tutte le certezze che questo posto comporta. Uno scoglio dell'iter è l'abilitazione. In definitiva ci vorrebbero più o meno 7 anni per mettersi alle spalle la vita da precari. E un ricercatore rischia di arrivare alla meta in un'età fra i 40 e i 50.

"E' meraviglioso essere pagati per pensare, ma per la vita concreta la precarietà ti mette a dura prova". Anche comprare casa è un'impresa, "ti rifiutano persino un finanziamento di 10 mila euro e devi chiedere soldi in prestito ai tuoi", sottolinea Giusi. Al momento della dichiarazione dei redditi, con le varie borse di studio, "arriva la mazzata dell'Irpef". Per non parlare della conciliazione famiglia-lavoro. Spesso scatta il pregiudizio: uno studente può permettersi di fare i fine settimana o tirare tardi in laboratorio, una mamma no. "In realtà - obietta Giusi - quando hai figli non fai di meno, semplicemente ottimizzi. Io corro come una pazza, incastro tutte le cose, è la gestione del tempo che cambia. Certo, ho avuto anche il sostegno del mio capo ed è stato importante perché ha continuato a pagarmi e ha fatto sì che potessi prendermi il tempo che mi serviva in entrambe le maternità".

Guardando indietro, agli anni in cui prendeva "600 euro al mese e mantenersi lontano da casa era dura", alle borse di studio vinte e i traguardi raggiunti con le sue ricerche sull'endocitosi che le sono valse una pubblicazione su 'Science', Giusi non ha dubbi: "Mi piace quello che ho fatto, ne sono orgogliosa". L'entusiasmo aiuta, all'inizio, ma i figli portano con sé anche responsabilità: "Non è bello pensare che hai quasi 40 anni e se ti succedesse qualcosa le tue figlie non avrebbero nulla. Andrebbero introdotte più tutele. Perché la certezza di un posto non esiste più neanche in altri settori, ma le tutele sì e noi non ne abbiamo. Vivere con questa spada di Damocle che pende sulla testa non è il massimo".

Il confronto con l'estero, poi, rischia di essere impietoso. Soprattutto se il metro di paragone è il Nord Europa: "Ho fatto un periodo in Olanda - racconta ad esempio Giusi - la differenza enorme è nel rispetto della vita privata e della famiglia. Al punto che, quando ho chiesto alla tecnica con cui collaboravo se potevamo lavorare il fine settimana, mi ha detto assolutamente no". Anche Tiziana Lischetti, 35 anni, laurea in biotecnologie mediche in Italia e dottorato di ricerca in meccanismi molecolari delle malattie in Danimarca, guarda con un pizzico di nostalgia ai tempi in cui viveva a Copenaghen, dove si è fermata 6 anni. "Per i primi 3 mi lamentavo del clima, della poca socievolezza, del cibo. Dal quarto anno", come un altro 'expat' le aveva predetto, "è stato amore incondizionato".

"Ho apprezzato la loro cultura e la sensazione di sicurezza che hanno tutti i danesi, con uno Stato che li sostiene, meno pensieri, una maternità di un anno da condividere con il papà. Uscire dall'ufficio alle 16 è la normalità e ho iniziato anch'io a godere di questa esperienza". Poi per amore ha scelto di tornare in Italia, ha scritto la domanda per una borsa iCare di Airc e Unione europea che favorisce la mobilità dei giovani ricercatori, ed è diventata un cervello di ritorno. Tiziana ha sposato il suo "stoico fidanzato" che ha accettato un lungo rapporto a distanza e l'ha sempre sostenuta. Oggi è mamma della piccola Ariel che soffierà la prima candelina ad agosto, e ha potuto vivere la sua gravidanza al bancone nel Lab G di Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare) a Milano, laboratorio studiato ad hoc per ricercatrici in attesa o neomamme che allattano, per le quali sussiste un potenziale rischio di esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici.

"E' una realtà rara anche all'estero - dice Tiziana - e mi ha permesso di lavorare fino a un mese prima del parto". Il suo progetto prevedeva l'uso di farmaci chemioterapici e uno studente le ha dato una mano affiancandola per la parte che le era preclusa. Al mattino è la nonna a prendersi cura della piccola. Tiziana si mette in macchina dalla provincia di Varese per andare in laboratorio a Milano, oppure lavora da casa rimanendo in contatto via Skype.

"Mi ritengo tutto sommato fortunata, al netto del fatto che tra un mese sarò disoccupata (la borsa finisce il 31 luglio e col suo capo sta già scrivendo domande per altri grant, ndr). Ho potuto fare 3 mesi in più con la mia bimba senza che ripartisse la borsa, mentre so di colleghe che sono state pressate per rientrare. Tra l'altro iCare chiede che venga fatto un certo tipo di contratto e io ho potuto usufruire della maternità Inps". Anche per Tiziana servirebbero più misure di sostegno. Andando avanti con l'età le cose si complicano, riflette. "E' un imbuto, ci sono tanti ricercatori e pochi fondi. E più diventi qualificato, più è difficile ricollocarsi". Tiziana non si scoraggia e si vede anche mamma bis. Il suo sogno nel cassetto? "Tornare a Copenaghen con tutta la famiglia".

Le Fondazioni che finanziano i ricercatori chiedono spesso che vadano nelle scuole a parlare con i giovani studenti, i potenziali scienziati di domani. La passione può scattare proprio fra i banchi, come è successo a Tiziana. Lei si vedeva architetto, ma all'ultimo anno di liceo ha partecipato a dei laboratori di biologia facoltativi e già dopo il primo pomeriggio "sapevo che quella sarebbe stata la mia strada", dice. Giusi sarà invece una di quelle ricercatrici che andrà dai ragazzi. "Quando ho vinto il bando ho firmato il cosiddetto piano di 'dissemination' - racconta - Con gli studenti sarò sincera: dirò di inseguire i loro sogni perché si può fare tutto. Ma non nasconderò il fatto che questo lavoro è anche un grande sacrificio. E serve tanta, tanta tenacia".

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