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Coronavirus, analisi Ispi: in Italia letalità reale all'1,1%

28 marzo 2020 | 12.35
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(Fotogramma)
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Il tasso reale di letalità del Covid-19 in Italia è all'1,1%, molto più basso di quello registrato intorno al 10%, perchè il numero reale di persone contagiate è molto più alto di quanto confermato. E' quanto sostiene un'approfondita analisi dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), a cura di Matteo Villa.

Il tasso di letalità di Covid-19, fissato al 9,9% al 24 marzo, è un dato molto discusso. Se paragonata ai principali paesi del mondo, la letalità del virus in Italia è nettamente la più alta. Ma utilizzare questo dato sarebbe un errore, afferma Villa. Esso infatti non dice quasi nulla circa la letalità reale del virus, che studi recenti stimano nello 0,7% per la Cina, mentre Ispi stima in 1,1% per l’Italia. La differenza tra questo dato realistico e quello "fuori scala" è riconducibile al numero di persone che sono state contagiate ma non sottoposte al tampone per verificarne la positività.

Ispi stima infatti che le persone attualmente positive in Italia siano nell’ordine delle 530.000, contro i circa 55.000 "casi attivi" ufficiali. Il dato sulla letalità apparente è dunque un indicatore inaffidabile, e nulla suggerisce che la letalità plausibile italiana sia così diversa dalle cifre attese. All’opposto, confrontare letalità apparente e letalità plausibile ci permette di tracciare meglio la curva dei contagi in Italia, seguendo in maniera più realistica l’andamento dell’epidemia.

Nelle ultime settimane sono sorti numerosi dibattiti su Covid-19. C’è persino chi ha tentato di spiegare tali differenze nella diffusione e letalità della malattia tra paesi, ipotizzando come possibili fattori causali lo stress del sistema sanitario nazionale, una mutazione genetica del virus a livello locale, le differenze di temperatura e umidità tra regioni del mondo, o variazioni in termini di legami intergenerazionali (gli italiani vivrebbero più spesso e più a lungo con genitori e nonni, rischiando di contagiarli). Cosa c’è di plausibile in queste ipotesi? Si chiede l'autore. Ben poco, al momento. Innanzitutto è importante non confondere letalità e mortalità. Quando parliamo di letalità di Covid-19 ci riferiamo a quante persone muoiano sul totale delle persone contagiate (o, meglio, positive). Se invece parliamo di mortalità di Covid-19 ci chiediamo quante persone muoiano sul totale della popolazione. Per fare un esempio, se in un paese di 100 abitanti ci sono 10 contagiati e 5 morti, il tasso di letalità sarà del 50% ma il tasso di mortalità sarà solo del 5%.

A parte ciò, spesso il problema nasce da un’altra confusione: quella tra tasso di letalità apparente (case fatality rate, Cfr) e tasso di letalità plausibile (infection fatality rate, Ifr). Nel corso di un’epidemia, l’unico modo che abbiamo per capire chi sia contagiato è sottoporre una persona a un test, ed è naturale che non si testi l’intera popolazione di persone contagiate. Vi sono almeno due ragioni per cui ciò non avviene. Innanzitutto, può esistere una quota di popolazione asintomatica o paucisintomatica: in questo caso essa non chiede di sottoporsi a test perché non si accorge di essere malata o non ipotizza di aver contratto proprio Covid-19.

In secondo luogo, in momenti di espansione dell’epidemia il numero di casi cresce in maniera talmente rapida che può risultare impossibile sottoporre a tampone persino il sottoinsieme di persone sintomatiche e che vorrebbero fare il test: si procede dunque per gravità, limitando i test ai casi via via più critici.

C’è, insomma, una piramide di persone contagiate. Il calcolo della letalità apparente (Cfr) si basa solo su una porzione più o meno grande di "punta" della piramide, dividendo il numero di morti confermate per il numero di casi confermati. Quello della letalità plausibile (Ifr) tenta di stimare anche le dimensioni della "base", ovvero il numero di contagiati totale, per poi dividere il numero delle morti confermate per l’intera grandezza della piramide. Com’è ovvio il calcolo della letalità apparente è immediato, perché sia il numero delle morti confermate che quello dei casi confermati è conosciuto. Il calcolo dell’Ifr richiede invece diverse operazioni di stima dei contagi totali ed è molto complicato. Tuttavia, calcolare l’Ifr è indispensabile per avere un’idea realistica di quante persone contagiate perdano realmente la vita.

Che la letalità apparente sia una cifra non utilizzabile per comprendere come l’epidemia si comporta all’interno e tra i vari paesi è facile da capire: è sufficiente osservare l’andamento nel tempo del Cfr italiano. Nei primi giorni dell’epidemia la letalità italiana si attestava intorno al 3%, e tra il 25 febbraio e il 1° marzo era persino gradualmente scesa fino al 2%. Da quel giorno in avanti, al contrario, la letalità ha invertito la rotta e ha cominciato ad aumentare, gradualmente e linearmente, fino a raggiungere il 9,9% il 24 marzo.

Cosa spiega quest’inversione di tendenza? Il cambio di politica sui tamponi, richiesto alle Regioni da parte del Governo italiano per adeguarsi alle raccomandazioni dell’Oms. Se torniamo all’inizio dell’epidemia, erano in molti a chiedersi come mai nella settimana successiva al 21 febbraio, il giorno della "scoperta” del paziente 1, i casi positivi in Italia stessero crescendo in maniera esponenziale rispetto agli altri paesi europei.Una risposta è che l’Italia fosse già più avanti sulla curva epidemica rispetto all’Europa. Ma c’era anche un altro fattore: fino al 28 febbraio diverse Regioni avevano cominciato a effettuare tamponi su un campione relativamente vasto di popolazione, testando e dunque portando alla luce anche molte persone infettate ma asintomatiche o paucisintomatiche (per esempio i contatti diretti di altre persone positive).

I casi, dunque, emergevano prima di quanto accadesse in altri paesi. Dal 28 febbraio in avanti le Regioni hanno iniziato ad adeguarsi alle richieste del Governo - richieste motivate anche da ragioni di necessità, per non sottoporre a un carico di lavoro eccessivo i 31 laboratori autorizzati ad analizzare i risultati dei tamponi in una fase di crescita esponenziale dei contagi.

L’inversione di tendenza nella letalità apparente è avvenuta dopo un paio di giorni, mano a mano che i test già effettuati venivano analizzati ed esitati dai laboratori e che il cambio di policy prendeva corpo. Da allora la letalità apparente ha imboccato un trend chiaro, lineare e in salita. Siamo dunque passati da una situazione in cui ci chiedevamo perché l’Italia avesse più casi conclamati degli altri a una in cui ci interroghiamo sul perché in Italia la letalità apparente sia così alta. Scorporando la letalità nazionale a livello regionale si scopre che questa varia da un massimo del 13,6% in Lombardia a un minimo dell’1,1% in Basilicata. Difficile immaginare che il virus muti in maniera così repentina da luogo a luogo, e che davvero uccida un contagiato ogni 7 in Lombardia e solo un contagiato su 91 in Basilicata. Tanto più che Regioni a bassa letalità si ritrovano sia nel nord della Penisola (Veneto, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige) sia al sud (Sicilia, Calabria, Sardegna).

Ma proprio questa variabilità tra Regioni ci offre il destro per utilizzare l’Italia come un ottimo caso studio. C’è infatti un modo piuttosto diretto per dimostrare come il tasso di letalità apparente dipenda in larga parte dalle politiche di test delle singole Regioni. Se una Regione effettua pochi test, sottoponendo a tampone solo le persone sintomatiche o persino solo quelle gravi, è lecito attendersi che per ogni tampone fatto emergano molti casi positivi. Viceversa, se una Regione sottopone a tampone una parte più consistente di potenziali contagiati, dando la caccia anche alle persone asintomatiche o paucisintomatiche, ci attendiamo che abbia una percentuale di casi positivi per tampone nettamente più bassa: in altre parole, gli asintomatici sono più difficili da trovare.

Così infatti accade: il Veneto, con le sue politiche di test diffuso, presenta un rapporto di positivi per tampone del 10%, mentre al contrario la Lombardia o le Marche hanno tassi vicini al 40%. C’è una stretta relazione tra le politiche di test e la letalità apparente: chi fa più tamponi troverà persone meno gravi nella popolazione generale, e dunque la sua letalità apparente sarà più bassa. Chi ne fa di meno farà emergere soprattutto casi gravi, e dunque la sua letalità apparente sarà più alta.

Una volta stabilito che il Cfr è una misura non attendibile, c’è estremo bisogno di stimare l’unico dato davvero importante, ovvero il tasso di letalità plausibile (Ifr). In un recente lavoro, Verity et al. (2020) calcolano che la letalità plausibile per persone positive a Covid-19 in Cina sia dello 0,66% (con un intervallo di confidenza del 95% compreso tra 0,38% e 1,33%). Una stima ben lontana, dunque, dal tasso apparente cinese del 4%. Sulla base di questo modello, Ferguson et al. (2020) stimano per il Regno Unito una letalità plausibile dello 0,9% (intervallo di confidenza: 0,4% – 1,4%). La letalità plausibile stimata è più alta di quella cinese perché la popolazione britannica tende a essere più anziana, e come è noto Covid- 19 presenta rischi molto maggiori per le fasce di popolazione più anziane.

Seguendo l’esempio di Ferguson et al. abbiamo deciso di replicare l’analisi adattandola al caso italiano. L’Italia ha una distribuzione della popolazione per classi di età ancora più spostata verso gli anziani, ed è dunque naturale attendersi che la letalità plausibile di Covid- 19 sia leggermente più alta di quella britannica. Riportando la letalità plausibile stimata per Covid-19 alle varie classi d’età, stimiamo che la letalità plausibile della malattia in Italia si aggiri intorno all’1,14%.

Questo ci porta anche all’ultima parte del ragionamento: se il tasso di letalità apparente non ci dice praticamente nulla di quanto sia realmente mortale una malattia e non permette comparazioni tra paesi, il confronto tra letalità apparente e letalità plausibile ci permette di stimare quante siano le persone realmente contagiate dal virus in Italia. È sufficiente dividere la letalità apparente per quella plausibile, ottenendo un moltiplicatore da applicare ai casi ufficiali. Alla cifra così ottenuta sarà poi necessario sottrarre il numero delle persone plausibilmente guarite, che stimiamo utilizzando la percentuale dei guariti tra i casi ufficiali. Stimiamo in questo modo che la popolazione di casi attivi (contagiosi) plausibili sia a oggi quasi dieci volte più alta dei casi ufficiali, nell’ordine delle 530.000 unità contro i 54.030 casi ufficiali al 24 marzo 2020. L’incertezza attorno a questa stima è piuttosto ampia: si va da un minimo di 350.000 casi a un massimo di 1,2 milioni di persone contagiose attualmente in Italia.

In conclusione, l'analisi Ispi cita innanzitutto, le buone notizie: in Italia non sembra essere presente un ceppo molto più letale di coronavirus rispetto al resto del mondo. La letalità plausibile del virus varia con la struttura delle età e la sua diffusione nella popolazione: a parità di contagiati, è naturale attendersi un numero di morti più alto in Italia che in Cina perché la popolazione italiana è nettamente più anziana di quella cinese e il virus colpisce in maniera più grave proprio le classi d’età più avanzata.

Solo nei prossimi mesi e anni sarà possibile indagare eventuali variazioni tra paesi rispetto a questa stima centrale: ma è difficile attendersi effetti molto ampi rispetto alla "forza" media del virus. Insomma, sarà probabilmente arduo dimostrare che in Italia si muoia di più perché i ventenni vivono ancora in famiglia e hanno contatti più frequenti con i nonni, o perché il clima rende il virus più contagioso e letale.

Una seconda buona notizia è che confrontando letalità apparente e letalità plausibile è possibile stimare il numero delle persone contagiate e, allo stesso tempo, osservare in maniera più corretta l’andamento dell’epidemia. I casi ufficiali non offrono infatti una buona indicazione di ciò che stia realmente accadendo, mentre la nostra stima dei casi attivi plausibili permette di farlo (e di tenere conto dell’incertezza intorno alla cifra centrale).

Ci sono però anche cattive notizie. La prima, collegata alla precedente, è che abbiamo ormai perso contatto con la diffusione del virus nella popolazione generale. Non è infrequente che questo accada nel corso della fase esponenziale del contagio, in cui le risorse disponibili sono in massima parte dirette a far fronte all’emergenza sanitaria qui e ora, piuttosto che a studiare la distribuzione dei contagiati.

Nel frattempo, è altrettanto inevitabile procedere con misure di lockdown per evitare che le tante persone malate e non monitorate contagino un numero elevato di persone sane. Ma per poter immaginare il periodo post-emergenza sarà necessario adottare metodi atti a rintracciare le persone potenzialmente ancora contagiose, che si siano accorte di esserlo o meno, e cercare di censirle per tenere sotto controllo l’epidemia.

La seconda cattiva notizia è che, se il virus è sicuramente meno letale di quanto potevamo immaginarci, la sua pericolosità resta immutata. Da un lato, la letalità si abbassa solo perché aumenta il numero plausibile di contagiati, ma il trend dei decessi rimane purtroppo lo stesso. Dall’altro, anche immaginando che il virus abbia contagiato 1,2 milioni di persone, si tratterebbe ancora soltanto del 2% della popolazione italiana.

Saremmo dunque ancora molto lontani da una diffusione del virus nella popolazione generale sufficientemente ampia da avvicinarci alla famosa "immunità di gregge", ottenendo l’effetto di rallentare nuovi contagi (ciò accade quando attorno a una persona contagiosa c’è un numero sufficiente di persone guarite e – parzialmente o totalmente – immuni, che fanno da barriera).

Un’ultima precisazione, che vale per tutti i paesi, è che soprattutto nelle regioni in cui più alto sarà lo stress sanitario è plausibile attendersi che una quota di decessi non venga censita tra le persone positive al coronavirus, perché non resteranno tempo e risorse per eseguire il tampone neppure post mortem. Ciò non invalida il nostro ragionamento generale, ma richiederà di rivedere al rialzo la nostra stima di casi plausibili di contagio nelle aree più colpite. Quella contro il virus sarà una lotta ancora lunga. Con questo studio abbiamo cercato di fornire alcuni strumenti in più per affrontarla.

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