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Entro il 2050 circa 250 milioni di profughi ambientali

Africa, Asia, Sud America ed Europa: la mappatura dei conflitti ambientali

05 febbraio 2014 | 17.11
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Africa, Asia, Sud America ed Europa: la mappatura dei conflitti ambientali

Ogni guerra devasta l'ambiente. E questo è l'effetto. Poi c'è la causa: il controllo dell'ambiente che scatena le guerre. Dall'inquinamento da uranio impoverito al land grabbing, dalla deforestazione ai profughi in fuga da territori martoriati, la mappatura dei conflitti ambientali comprende non solo l'Africa, l'Asia e il Sud America, ma anche l'Europa. Oltre 50 anni di estrazione di idrocarburi nel Delta del Niger hanno compromesso gravemente 36mila kmq di ecosistema di mangrovie; a causa dell'attività mineraria nell'Orissa, in India, 35mila acri sono stati deforestati tra 1980 e 1997 e 150mila tra 1998 e 2005; a El Salto, in Messico, sono 280 gli scarichi di acqua contaminata identificati, dei quali 266 direttamente nel fiume Santiago.

Sono alcuni dei dati contenuti nella quinta edizione dell'Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo (edito dall'Associazione 46° Parallelo e distribuito da Aam Terra Nuova Edizioni), annuario che informa sullo stato dei conflitti che si combattono sul pianeta. "Qualsiasi guerra devasta l'ambiente, basta pensare ai 60 anni di guerra in Colombia a causa dei quali un terzo delle terre è minato e quindi inutilizzabile. Poi c'è il controllo dell'ambiente, dalle terre coltivabili ai siti in cui scaricare rifiuti tossici, che è ragione di guerra", spiega all'Adnkronos Raffaele Crocco, direttore dell'Atlante.

Ma quali sono oggi le aree in cui si concentrano i conflitti ambientali? Sicuramente l'Africa: "delle 36 le guerre in corso a livello globale, 15 riguardano questo continente - continua Crocco - con una devastazione ambientale continua. Accade in Nigeria con l'estrazione di petrolio nel delta del Niger; nella regione dei grandi laghi con milioni di ettari di foreste spazzate via per fare spazio alle miniere; intere regioni colpite dall'accaparramento delle terre, il land grabbing in atto per le speculazioni; terre impoverite dalle coltivazioni intensive e rese incoltivabili causando lo spostamento di moltissime persone".

E c'è l'America Latina, con la Colombia, con il Messico contaminato dalle discariche industriali, l'Ecuador che vede fette di foresta amazzonica minacciate "dalle multinazionali che vorrebbero procedere con gli abbattimenti costringendo chi vive in quelle aree a spostarsi", sottolinea Cracco. C'è l'Asia, qui i maggiori conflitti ambientali riguardano le attività minerarie in India con i villaggi devastati dall'inquinamento, la perdita di falde acquifere, terreni non più coltivabili.

Ma c'è anche l'Europa. "A proposito di land grabbing -spiega il direttore dell'Atlante - il Guardian ha diffuso un dato allarmante: in Europa, il 3% delle aziende agricole controlla il 50% delle terre coltivabili dell'Ue; questo 3% è composto non da aziende europee, ma che sono in mano a multinazionali o a fondi di investimento. Secondo una statistica della Banca Mondiale, il 21% delle terre accaparrate sono destinate alla speculazione commerciale, questo significa che chi le possiede coltiva solo ciò che è utile a garantire il maggior profitto ai propri investitori, una manovra speculativa non funzionale alle necessità alimentari".

Ai conflitti ambientali si collega poi la questione profughi, "persone che si spostano perché non possono più vivere a casa loro a causa delle conseguenze delle guerre, in Colombia come in Sudan: secondo le stime dell'Unhcr potrebbero esserci, entro 2050, circa 250 milioni di profughi ambientali, vale a dire 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare le proprie case". Il 21 febbraio presso il Caffè dei Giornalisti a Torino sarà presentata la V edizione dell'Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo, dedicata a Nelson Mandela, con 36 ''schede conflitto'', gli speciali Pirateria, Donne e Guerra e Conflitti Ambientali. Giunti alla quinta edizione, però, Crocco registra una "agghiacciante situazione di continuità", cioè "nessun cambiamento nel modo di affrontare la guerra da parte della comunità internazionale", e l'incapacità di "mettere in campo un modello di prevenzione e di gestione del conflitto".

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