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La provocazione

Toscani: "La fotografia è un'arte democratica, tutti fanno click ma pochi sono artisti"

14 agosto 2016 | 14.26
LETTURA: 6 minuti

(Fotogramma)
(Fotogramma)

Basta teleguidare un drone per rubare foto da tutte le prospettive o tirare fuori da una tasca uno smartphone per fare un click del mondo che ci circonda. Facciamo foto come prendevamo appunti a scuola, archiviamo istantanee con una frequenza smisurata rispetto anche alla nostra voglia di ricordare. E così viene meno lo sguardo, l'osservazione. Ci sentiamo tutti un po' fotografi, ma l'arte dello scatto è tutta un'altra cosa. O almeno così la pensa chi della fotografia ha fatto una professione a cinque stelle.

"Oggi tutti sanno scrivere e leggere, ma non sono aumentati i poeti - dice all'Adnkronos Oliviero Toscani, fotografo italiano di fama internazionale, conosciuto per le sue campagne pubblicitarie -. La fotografia è l'arte in cui tutti pensano di essere bravi, perché è più facile fotografare che parlare e scrivere, così si sentono tutti un po' artisti. Io trovo sia fantastico, quest'arte così democratica". E' chiaro però, sottolinea Toscani, che "non è più sufficiente fare fotografie per essere un fotografo", e spiega: "Una matita ce l'ha in mano un analfabeta e scrive quattro crocette, ce l'ha in mano Einstein e scrive la legge della relatività".

Nell'era degli smartphone e dei social network le immagini vengono prodotte ovunque e continuamente ma al di là delle classiche foto frontali a farla da padrone, a scapito del tradizionale e ormai superato autoscatto amatoriale, è il selfie.

"Mentre Warhol diceva tutti vogliono essere famosi per un quarto d'ora, ora tutti vogliono un selfie - sottolinea Toscani - Noi saremmo ricordati per le fotografie che avranno fatto di noi, ognuno è la fotografia che è. La fotografia è ormai la realtà, non c'è più la realtà, c'è la fotografia, la realta' riportata nell'immagine. Lei ha mai visto Obama? Non l'ha mai visto dal vivo ma ha un'opinione di lui".

Quanto al mestiere del fotoreporter Toscani ribadisce: "Tutti sanno fotografare ma per essere un fotoreporter devi essere un autore, non è più sufficiente fare fotografie per essere un fotografo. Prendiamo un quadro, una cosa è un artista e una cosa è uno che mette i colori su una tela".

Della stessa idea è Michele Cirillo, giovane fotoreporter freelance e docente di fotografia. "La tecnologia non ha reso tutti fotografi, ma tutti capaci di catturare immagini - dice all'Adnkronos - possiamo avere tutti una penna ma non possiamo per questo definirci scrittori. Ricordiamoci che la fotografia è una splendida forma di arte e non il frutto di dispositivi più o meno tecnologici".

Il mondo del fotoreportage, spiega Cirillo, è "molto cambiato". "Abbiamo una quantità di foto che ci arrivano dalle zone di conflitto - aggiunge - e solo poche di loro riescono a lasciare un segno che sia qualcosa di più di una semplice immagine. Sarebbe bello soffermarci sulle foto che arrivano, pensare alla storia che le circonda, un po' come è stato per la fotografia di piazza Tienamen, che ha avuto la forza di cambiare la storia e l'immaginario della guerra. Oggigiorno abbiamo a disposizione un flusso continuo di immagini sulle quali semplicemente non riusciamo a soffermarci".

Secondo Cirillo, "il fotoreporter trova il suo spazio principale nell'approfondimento: storie e indagini che per fortuna sono ancora molto apprezzate soprattutto all'estero". Ma quello che sta entrando in competizione con la fotografia, ci tiene a precisare Cirillo, "non e' la tecnologia smartphone ma il video e quello che viene dopo il video: la diretta, il Facebook live".

"In questo modo chi crea l'immagine non può trasmettere una visione critica, che possa indicare un senso - aggiunge - Con le telecamere a 360 gradi è il lettore che sceglie cosa vuole vedere, il reporter diventa un semplice cavalletto umano".

Quanto al modo fotografare, secondo Cirillo, "la fotografia dovrebbe essere strumento privilegiato per memoria ed espressione". "Premetto che non sono un nativo digitale - racconta - ho iniziato a scattare con l'analogico, il rivelarsi dell'immagine sulla pellicola era un momento magico e misterioso, ora l'immagine è immediatezza e condivisione vediamo subito quello che andremo a produrre e scartiamo il più delle volte la verità in favore di qualcosa che possa farci sentire migliori e in qualche modo popolari".

Nostalgia a parte, l'overdose di immagini è ormai un fatto. "La fotografia di reportage? - dice all'Adnkronos Andrea Miconi, fotografo freelance di scena e reportage -. Sì ha ancora senso, è giusto raccontare, è giusto che il fotografo possa soddisfare la sua curiosità che dovrebbe essere la base di un reportage genuino; da questo punto di vista ha senso. Quello che serve oggi è un esame di coscienza da parte dei fotografi ma soprattuto da parte degli editori. Bisogna rivedere la scala dei valori. Il rischio è di mercificare il lavoro del reporter ed è anche molto alto il rischio di un'assuefazione, di un sovradosaggio di immagini".

"E' giusto documentare un conflitto, come può essere la tragedia siriana - spiega - ma non bombardare le persone con le immagini dei morti sotto le macerie, il rischio è l'effetto contrario". E poi, aggiunge, "è giusto documentare determinate situazioni anche quando non c'è la sensazionalità della notizia, come può essere continuare a raccontare i disagi dei palestinesi, per fare un esempio".

Miconi, 38 anni, per vivere fa il fotografo di scena, tv, cinema, ma la sua passione sono i reportage. "L'avvento del digitale ha eliminato la selezione all'ingresso, lo dico sia da un punto di vista tecnico che di approccio alla fotografia, che è fondamentale - racconta - Con la pellicola prima di scattare si pensava, non fosse altro che per una questione economica. Adesso c'è la sagra dello scatto a raffica: non si ragiona più, prima di scattare non si pensa. Anche nella fotografia di scena non c'è più molta attenzione allo scatto, a determinati dettagli, l'arte dello scatto viene meno rispetto alla location bella, dietro c'è sempre un discorso di marketing, di immagine, è un po' quello che vale con il reportage".

"Alla base, mi si passi il termine, c'è anche un 'imbarbarimento' di chi riceve l'immagine - conclude - Nel cinema, nella televisione c'è stato un calo di qualità, se mi posso permettere un giudizio personale, chi riceve, chi guarda la rivista di cinema, di spettacolo, non guarda certo la qualità della foto. La foto non è più ragionata, è molto più frivola e orientata alle regole del marketing".

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