La realtà virtuale potrebbe aiutare chi soffre di depressione. E' la scoperta di un gruppo di ricerca internazionale che ha pubblicato i risultati di uno studio sul 'British Journal of Psychiatry Open', ponendo le basi per un trial clinico su larga scala. Per la prima volta, infatti, una terapia virtuale è stata testata su persone con problemi depressivi.
La ricerca - riportata dalla Bbc online - ha coinvolto 15 persone, di cui 10 donne, certificate come depresse dal servizio sanitario inglese. Innanzitutto i pazienti hanno indossato un casco che ha proiettato un Avatar adulto. Ai partecipanti è stato chiesto di identificarsi mentalmente con questa immagine, in grado di replicare esattamente i movimenti del corpo dei pazienti. Hanno poi aggiunto nello stesso ambiente virtuale un Avatar separato di un bambino che piange, dicendo di confortarlo e consolarlo. A questo punto i pazienti hanno detto al bimbo di pensare a un momento felice e a qualcuno che gli vuole bene.
I ricercatori hanno quindi invertito i ruoli. Alterando il casco indossato dai pazienti, questi si sono immedesimati nel bambino - in grado di copiare i movimenti della persona in carne e ossa - e hanno sentito le parole di conforto che avevano pronunciato poco prima.
Secondo Chris Brewin, autore principale del lavoro, i risultati sono promettenti e i pazienti hanno descritto l'esperienza come "davvero potente". Nove dei 15 partecipanti, tutti tra i 23 e i 61 anni, hanno registrato una riduzione della depressione nel mese successivo al trattamento. E 4 di questi 9 hanno riportato "un significativo calo nella gravità della patologia". Gli altri 6, invece, non hanno notato cambiamenti. Le sessioni di solito duravano 45 minuti e ai pazienti ne venivano 'somministrate' 3.
Secondo Brewin, gli effetti positivi possono durare fino a un mese. "Le persone che lottano con l'ansia e la depressione possono essere eccessivamente autocritiche quando le cose vanno male nella loro vita - osserva l'esperto - In questo studio i pazienti si sono compatiti indirettamente attraverso le parole di conforto che hanno rivolto al bambino e che poi hanno sentito dirette a se stessi. Lo scopo era insegnare loro a essere più indulgenti verso se stessi e meno autocritici".
"Ora speriamo di sviluppare ulteriormente la tecnica per condurre uno studio controllato più grande, in modo da determinare con sicurezza i benefici clinici", conclude Mel Slater, coautore della ricerca condotta dall'University College London in collaborazione con Icrea-University of Barcellona, e con il finanziamento del Medical Research Council.