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Offese sui social al capo, anche il sindacalista può essere licenziato

L'ordinanza della Cassazione: "Nemmeno un sindacalista può travalicare i limiti, anche di continenza verbale, posti al diritto di critica nei confronti della società datrice"

Impiegati in ufficio
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12 gennaio 2024 | 14.12
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È legittimo il licenziamento di un rappresentante sindacale che abbia rivolto pesanti offese al datore di lavoro tramite i propri profili social. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con ordinanza del 22 dicembre 2023, n. 35922, secondo la quale, spiega ad Adnkronos/Labitalia Luca Garramone, partner di Orsingher Ortu Avvocati Associati, "nemmeno un sindacalista che adduca a sua difesa l’esercizio delle proprie funzioni può travalicare i limiti, anche di continenza verbale, posti al diritto di critica nei confronti della società datrice".

"Nello specifico, al dipendente con funzioni di rappresentante sindacale -spiega l'esperto- erano stati contestati disciplinarmente alcuni commenti diffusi tramite il proprio account Facebook accessibile a tutti gli utenti, che sono stati ritenuti arbitrari ed intrisi 'di accenti particolarmente volgari' e, come tali, considerati dal datore gravemente lesivi 'dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili'".

In virtù di ciò, sottolinea ancora Garramone, "il lavoratore era stato quindi licenziato per giusta causa, sul presupposto che gli addebiti mossigli, a titolo di dolo o di negligenza grave ed ingiustificabile, impedissero ogni possibile prosecuzione del rapporto. Impugnato il recesso datoriale, il ricorrente aveva quindi tentato di sostenere di essere stato oggetto di un provvedimento espulsivo discriminatorio, per essere lui un rappresentante sindacale punito ingiustamente per la sua attività che, per contro, gli avrebbe dovuto assicurare un’esimente specifica".

"Ebbene, secondo i giudici di legittimità, nonostante la critica, anche aspra, nei confronti del proprio datore di lavoro debba essere sempre garantita nel rispetto del diritto di derivazione costituzionale di libertà di manifestazione del proprio pensiero, quest’ultima -rimarca l'esperto legale- non può comunque trascendere in affermazioni che risultino non dimostrate e nocive, sul piano morale, del decoro e della reputazione della propria azienda e dei suoi vertici, neppure allorquando a muoverle sia un sindacalista, che non può quindi validamente avvalersi della propria qualifica come scriminante".

Infatti, con la pronuncia in questione, "la Suprema Corte -prosegue Garramone- ha tenuto a rimarcare - ancora una volta ed in aderenza a precedenti pronunce sul tema - come anche l’esercizio dell’attività sindacale e del diritto di biasimo debba svolgersi nel rispetto di quell’imprescindibile correttezza formale posta a presidio dell’esigenza di tutelare la persona umana ed i diritti e le libertà altrui, anch’essi garantiti dalla nostra Costituzione e non possa quindi sfociare in affermazioni destituite di fondamento e del tutto gratuite, che vadano oltre pure alla “più colorita manifestazione della critica”.

"Con l’ovvia conseguenza che, qualora i suddetti confini fossero invece superati e ci si riferisse pubblicamente anche per il tramite dei social network alla società datrice ovvero ai suoi esponenti con termini inutilmente triviali ed apertamente denigratori, disonorevoli e non provati, il comportamento del lavoratore, ancorché rappresentante sindacale, risulterebbe passibile finanche della massima sanzione disciplinare possibile, ossia il licenziamento per giusta causa", spiega ancora.

Secondo l'esperto, "e ciò senza che in siffatta evenienza possano trovare accoglimento alcuno le difese del sindacalista che provi ad invocare la ritorsività della sanzione comminatagli dal proprio datore, perché l’accertamento di un tale eccesso di critica - secondo la Corte di Cassazione - esclude alla radice ogni profilo di discriminatorietà della decisione aziendale di recedere immediatamente dal rapporto in essere. Avendo quindi finito con il rilevare che le espressioni usate e diffuse dal sindacalista tramite un profilo pubblico e non riservato fossero effettivamente 'intrise di assai sgradevole volgarità' e prive di qualsivoglia finalità divulgativa in quanto esclusivamente volte a ledere l’immagine del proprio datore di lavoro, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la piena legittimità del recesso per giusta causa intimatogli", conclude.

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