
Il duo di Bristol porta a Milano il suo impegno civile: "Siamo tutti bambini di Gaza"
Ci sono live che fanno ballare, altri che commuovono. E poi ci sono quelli che scuotono la coscienza. I Massive Attack appartengono a questa terza categoria, rara e necessaria. Al Parco della Musica di Milano, il duo di Bristol, pioniere del trip hop, artefice del Bristol Sound, attivo dal 1987, tiene una lezione su come si può essere una band di successo senza dover per questo vendere l’anima al diavolo. Anzi, sfruttando l’esposizione mediatica e il seguito acquisito nel corso degli anni per mettere sempre in primo piano le proprie istanze politiche e la militanza civile.
Robert ‘3D’ Del Naja (di origini italiane e grande tifoso del Napoli), da molti considerato il misterioso artista Banksy, e Grant ‘Daddy G’ Marshall, sono antesignani di concerti sostenibili dal punto di vista ambientale, dalla compensazione delle emissioni ai più piccoli aspetti legati all’organizzazione dei tour. Da sempre collaborano con Ong per il supporto ai rifugiati, organizzazioni no profit come Emergency e Medici Senza Frontiere e progetti di sostegno al Sud del mondo e al ‘Fossil Fuel Non Proliferation Treaty’.
All’ingresso della venue ci sono i volontari di Msf che salgono poi sul palco prima del concerto per ribadire il cessate il fuoco a Gaza. Lo spettacolo si apre con dei serpentoni di notizie in italiano che scorrono sullo sfondo, estratti video da esperimenti sulle reti neurali di Elon Musk e le note leggere di ‘In my mind’ di Gigi D’Agostino per subito gettarsi a capofitto nella loro discografia: la cupissima ‘Risingson’, ‘Girl I love you’, (con la voce dell’amico di sempre Horace Andy) e ‘Black Milk’, con l’altra voce che li accompagna da sempre, Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins. Seguono il capolavoro dark ‘Inertia Creeps’ e la sognante ‘Angel’, sempre con Horace Wallace alla voce. E poi un tuffo nella prima parte della discografia, con i singoli del primo album ‘Safe from Harm’, dedicata al popolo palestinese e ‘Unfinished Simpathy’, entrambi con Deborah Miller alla voce.
"È bello essere qui stasera e anche essere tifoso del Napoli, non ci credo" dice in italiano 3D. Dopo la cover di ‘Levels’ di Avicii, la band cala l’asso con il capolavoro ’Teardrop’, sempre con Elizabeth, durante la quale tutti i presenti applaudono con la pelle d’oca. Non finisce in scaletta, con delusione dei presenti, 'Karmacoma', la filastrocca lisergica che li ha fatti esplodere nelle classifiche di tutto il mondo. Il finale è affidato a ‘Group Four’, e il duo chiude, come aveva iniziato, con ‘In my mind’, quasi a voler ricordare che all’inizio e alla fine del viaggio di impegno sociale resta comunque l’amore per la club culture e i bassi potenti (i più potenti che si possano ascoltare a un live).
È impossibile raccontare davvero questo show senza passare per i numeri, le statistiche, le immagini. Quelle che scorrono in loop dietro ai Massive Attack non sono visual ma reportage in tempo reale. A tratti ironici, per smascherare la vuotezza dell’era social. Spesso durissimi: scene di bombardamenti, feriti, colonne di profughi, città rase al suolo. La Palestina in primo piano (“Siamo tutti bambini di Gaza, Palestina libera” dicono dal palco mostrando la bandiera palestinese), insieme ad altri fronti dimenticati. Un pugno nello stomaco per gli spettatori e un modo per la band di combattere la disumanizzazione dell’informazione.
Ci sono le immagini dei politici, tutti, da Donald Trump a Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, fischiato dal pubblico ogni volta che appare sullo schermo. E ancora, le cifre degli aiuti elargiti dagli Stati Uniti a Israele dal 1946 a oggi. Scelte che in passato hanno causato guai alla band. Qualche giorno fa i Massive Attack hanno chiesto ai media di non estrapolare video e immagini dal contesto per trarre conclusioni da considerarsi “assolutamente strumentali e in mala fede”.
D’altra parte, non sarebbero loro se non smuovessero le coscienze, creando qualche controversia. 3D e Daddy G non solo suonano sul palco (e come suonano) ma agiscono anche.Quello che si avverte in ogni nota è un senso di coscienza e resistenza culturale, quasi a voler ricordare che la musica, quando è suonata così, può ancora parlare al mondo. (di Federica Mochi)