
Il dibattito sul limite della cittadinanza italiana ai discendenti nati all'estero e la richiesta di incostituzionalità del Decreto Tajani - Avv. Monica Restanio: "E' un dovere riconoscere chi emigrando ha custodito preziosamente i valori della italianità"
Riflettori accesi a Palazzo della Consulta sul no al riconoscimento senza alcun limite della cittadinanza italiana ai discendenti nati all'estero da cittadini italiani, impresso dai giudici del Tribunale di Bologna, Roma, Milano e Firenze in 4 distinte ordinanze all'attenzione della Corte costituzionale e acquisito dal Decreto legge del 28 marzo 2025 n.36, cosìddetto Decreto Tajani, intervenuto restrittivamente sul riconoscimento della cittadinanza per discendenza previsto dalle norme precedenti, l’articolo 4 del Codice Civile del 1865 (Regio Decreto del 25/06/1865, n. 2358), l’articolo 1 della Legge del 13/06/1912, n. 555 e l’articolo 1, in particolare il comma 1, lettera a), della Legge del 05/02/1992, n. 91.
Nel corso dell'udienza pubblica, assente l'avvocatura di Stato, la giudice costituzionale Emanuela Navarretta in qualità di relatrice ha illustrato alla Corte i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dai giudici rimettenti, relativamente a casi di domande di accertamento della cittadinanza italiana iure sanguinis di persone che sono nate e residenti e cittadini dell'Uruguay (tribunale di Milano) e del Brasile (altri giudizi) e che vantano ascendenti cittadini italiani nati o deceduti dopo il 1861, i quali hanno trasmesso senza interruzione la cittadinanza italiana ai loro discendenti. Minimo comune denominatore delle 4 ordinanze la contestazione alla trasmissione senza alcun limite prevista dalle norme antecedenti il Decreto Tajani."In tutti e 4 i giudizi viene motivata la rilevanza delle questioni adducendo che i richiedenti non avrebbero altro vincolo con l'Ialia se non quello del iuris sanguinis", riferise Navarretta.
"Per sanare il vulnus il tribunale di Bologna prospetta quale ragionevole punto di equilibrio il limite di due generazioni, salvo la prova che uno degli ascendenti o la persona interessata abbia vissuto in Italia per almeno due anni; o in alternativa evoca l'ipotesi di tener conto del più lungo termine di oblio previsto dall'ordinamento, pari a 20 anni. L'ordinanza di Roma - prosegue la giudice costituzionale - evoca invece che l'acquisione della cittadinanza per nascita sia consentita automaticamente ove il richiedente possa dimostrare direttamente la cittadinanza italiana del genitore, mentre ove debba risalire alla cittadinanza di un parente di secondo grado la sua situazione andrebbe equiparata a quella dell'art 4 comma 1 che regola l'ipotesi del discendente di chi ha perso la cittadinanza italiana. Infine l'ordinanza di Milano sembra voler sanare il vulnus con il tertium comparationis costituito dalla disciplina prevista per il coniuge del cittadino e della cittadina italiana".
Alla base dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalle ordinanze il fatto che "la nozione di popolo e cittadinanza non sono scatole vuote e non si può riconoscere la cittadinanza a persone prive di qualsiasi contatto con il paese. Si sottolinea pertanto il necessario connubio fra cittadinanza e nazionalità quale comunanza di linguaggio e tradizioni culturali storiche, cosi come il legame strettissimo fra popolo e territorio". Su questi presupposti i rimettenti ritengono che la mera discendenza iure sanguinis di antenato anche remoto non possa giustificare l'attribuzione della cittadinanza né basterebbe evocare l'art 29 che individua la famiglia come strumento di propagazione di una comunanza linguistica e culturale o l'art. 35 che si limiterebbe a riconoscere la libertà di migrazione che tutela il lavoro italiano all'estero. "Secondo il tribunale di Roma il perpetrarsi di questa regola valorizzerebbe una prospettiva veramente soggettivistica e individualistica della cittadinanza - riferisce Navarretta - trascurando la dimensione pubblicistica dello status civitatis e l'effettività del vincolo fra individuo e stato", aggravata dal fenomeno migratorio consistente che c'è stato fra il 1960 e il 1970.
Accorata la replica delle parti dei discendenti nati all'estero, costituitesi in giudizio eccependo l'inammissibilita e in subordine la non fondatezza delle questioni sollevate dai 4 tribunali che in modo "equivalente" sarebbero state recepite dal decreto Tajani: "L'italia istituzionale si è dimenticata del legame che ci unisce. Un giorno uno psichiatra in visita alla mia terra mi disse: voi siete come noi prima delle guerre. E mi è sembrata una definizione bellissima per il nostro link che non dovrebbe mai rappresentare una minaccia bensì una ricchezza - interviene durante il dibattimento con voce rotta dalla commozione l'avvocatessa argentina Monica Lis Restanio - Oggi migliaia di giovani chiedono all'Italia, culla del diritto, tutela per la propria identità e per le proprie radici. Si tratta di una questione essenziale, storica, transgenerazionale, che va oltre il concetto stesso della parola giustizia. E' un dovere di riconoscimento verso chi emigrando, con sacrificio e dedizione ha custodito preziosamente i valori della italianità, tramutandoli come lascito indelebile alla propria famiglia".
Denunciato dai numerosissimi difensori dei discendenti nati all'estero il carattere manipolativo dell'intervento richiesto alla Corte che andrebbe a restringere "con i limiti arbitrariamente individuati" il dettato del legislatore, e contestata la circostanza secondo cui sarebbe asserita dal remittente, ma non dimostrata, la mancanza di vincoli con l'ordinamento italiano oltre il legame di sangue. Nel merito la richiesta di non fondatezza fa appello a vari argomenti fra cui: il comune riferimento al rilievo che articoli della legge darebbero ai cittadini italiani all'estero e al fatto che queste norme doserebbero la rappresentanza politica onde non alterare il principio democratico; il ruolo svolto dalle famiglie nella trasmissione della lingua, cultura e tradizione del nostro paese.
Infine la difesa dei discendenti si è soffermata sulla normativa sopraggiunta medio tempore con l'approvazione del decreto legge 36 del 2025 come convertito. In particolare, perché con l'entrata in vigore del dl, l'eventuale accoglimento delle questioni determinerebbe una perdita retroattiva e generalizzata del diritto alla cittadinanza il che dovrebbe invece sottostare a vincoli costituzionali dettati dal diritto dell'Unione, mentre l'atto di costituzione degli altri ricorrenti sostiene che la nuova normativa violerebbe vari principi costituzionali. Viene chiesto per questo alla Corte di di auto-rimettere innanzi a se stessa la questione di costituzionalità o promuoverla in via pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia.
"Le questioni sono inammissibili e comunque infondate - dichiara a margine dell'udienza all'Adnkronos il vice presidente dell'Associazione giuristi iure sanguinis Giovanni Bonato - una eventuale pronuncia di merito introdurrebbe dei limiti retroattivi e quindi creerebbe una perdita della cittadinanza per milioni di persone". Secondo Bonato, "l'effetto del decreto Tajani è sostanzialmente equivalente a quello dell'effetto di questo giudizio, pertanto incostituzionale. Si applica infatti retroattivamente per i processi instaurati dopo il 28 marzo 2025 su persone già nate. Ma la cittadinanza iure sanguinis si acquisisce fin dalla nascita, quindi dicendo che costoro non possono essere più riconosciuti cittadini italiani, applichiamo il limite generazionale retroattivamente anche a coloro che sono già nati e li priviamo quindi della cittadinanza". (di Roberta Lanzara)