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Alla Biennale Teatro apertura con il Wooster Group

In scena il delirio visionario di 'Symphony of Rats'

(ufficio stampa Biennale di Venezia)
(ufficio stampa Biennale di Venezia)
31 maggio 2025 | 19.03
LETTURA: 5 minuti

Un presidente degli Stati Uniti in crisi (ma non è Donald Trump, nè il suo predecessore Joe Biden), messaggi apocalittici dallo spazio e un gigantesco topo che si aggira tra sogno e follia: "Symphony of Rats", riallestita in prima europea dal newyorchese Wooster Group per l'apertura del 53° Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, ha trasformato il palco in un'esplosione sensoriale e mentale, una navicella in orbita tra teatro sperimentale, cultura pop e intelligenza artificiale. Un viaggio ipnotico dove il caos è diventato poesia, e il corpo del teatro ha riflesso - come in uno specchio deformante e lucidissimo - le fratture del nostro tempo.

Lo spettacolo ha inaugurato il festival oggi, sabato 31 maggio, nella cornice del progetto "Theater Is Body, Body Is Poetry", sotto la direzione dell'attore statunitense Willem Dafoe, e ha rappresentato un momento di potente continuità e trasformazione nella storia del teatro d'avanguardia americano. "Symphony of Rats" (1988) è una delle opere più emblematiche di Richard Foreman, recentemente scomparso, artista visivo e teatrante visionario, fondatore dell'Ontological-Hysteric Theater. La sua poetica, fondata sull'idea che il teatro debba essere tanto una riflessione filosofica sull'essere quanto un'esperienza fisica e disturbante, ha segnato generazioni di performer e registi.

Quasi quarant'anni dopo la sua creazione, il testo ha ritrovato nuova vita grazie al Wooster Group - storica compagnia di culto della scena post-drammatica newyorkese - che, con l'autorizzazione e la benedizione dello stesso Foreman, ne ha realizzato una versione radicalmente attuale. La regia a quattro mani di Elizabeth LeCompte (che domani, domenica 1 giugno, riceverà il Leone d'Oro alla carriera 2025) e Kate Valk (interprete nella produzione originale del 1988) ha trasformato l'opera in un collage performativo stratificato, visuale e sonoro, in cui le suggestioni di Foreman si sono fuse con l'estetica ipermediale e ironicamente post-umana del gruppo.

Il fulcro della pièce è rimasto il viaggio allucinato di un presidente americano (interpretato con magnetismo disturbante da Ari Fliakos), che riceve misteriosi segnali dall'universo e crede di dover salvare l'umanità da una catastrofe imminente. Ma è proprio la sua mente - più che il cosmo - a esplodere: "La mia Polaroid mentale è rotta - esclama - scatto una foto, ma non succede niente".

Fliakos ha aperto la performance con un racconto in prima persona, apparentemente autobiografico, in cui descriveva una febbre psico-corporea post-vaccinazione (anti-Covid e anti-influenzale), fondendo attore e personaggio in una dissolvenza inquietante. Da quel momento in poi, la narrazione si è frantumata in una sequenza di visioni, episodi, apparizioni e intrusioni: Jim Fletcher nei panni di un dottore-scienziato/mutante techno-retro; Guillermo Resto che, seduto a un tavolo da conferenze, declamava sentenze attraverso un canestro da basket con voce da Darth Vader; Niall Cunningham nei panni di una sorta di folletto digitale al servizio del leader vacillante; e ancora una figura femminile su schermo, proiezione perturbante di un'umanità forse già fusa con l'intelligenza artificiale.

Il palco, trasformato in un'astronave mentale, ha ospitato una scenografia fatta di palloni, neon, immagini, oggetti di scena riciclati, strumenti elettronici e dispositivi di intelligenza artificiale: un ambiente a metà tra sala giochi, bunker governativo e installazione d'arte. Le proiezioni video di Yudam Hyung Seok Jeon e il sound design ipnotico di Eric Sluyter hanno creato un universo sospeso, dove la logica è implosa e la percezione ha preso il sopravvento.

Nel volume "Unbalancing Acts", Foreman definiva "Symphony of Rats" come un'esplorazione del "rumore" psichico: l'ambiguità costitutiva della coscienza, la sua resistenza a ogni sintesi. Questa dimensione è stata rilanciata dalla versione del Wooster Group, che ha accentuato il carattere caotico, pop, post-cinematografico e ipercontemporaneo dell'opera. Sono comparsi riferimenti espliciti a "The Suicide Squad", "Women in Love", "Star Wars", a Charlie Chaplin e al suo film "Il grande dittatore) e perfino a John Cena, citazioni ironiche ma mai gratuite, che hanno dato profondità e stratificazione al paesaggio mentale in cui si muoveva il protagonista.

La drammaturgia è apparsa deliberatamente antinarrativa: "Symphony of Rats" non ha offerto una trama da seguire, ma piuttosto un campo di esperienze, una serie di movimenti . quasi "quadri sonori" - che evocavano stati mentali, collassi percettivi, sovrapposizioni fra reale e virtuale. La performance è sembrata così avvicinarsi a una forma di installazione performativa, dove il tempo era dilatato e disarticolato, e lo spettatore invitato a farsi complice, non interprete, di un sogno altrui.

LeCompte e Valk, nelle loro note di regia, hanno sottolineato come la nostalgia abbia giocato un ruolo decisivo nel processo creativo: "Volevamo spingere la nostra arte in avanti, ma a volte non possiamo fare a meno di pensare al passato. La nostalgia ci ha fatto sentire che il nostro lavoro ha radici e continuità". In effetti, questa "Symphony of Rats" è sembrata guardare al futuro (con intelligenza artificiale e corpi digitali) senza dimenticare le proprie origini negli anni '80 downtown di New York, tra collage dadaisti e critica del potere.

La prima della Biennale Teatro è stata, in definitiva, un trionfo di contraddizioni: inquietante e ludico, disturbante e ironico, astratto e visceralmente corporeo. Un debutto che ha posto il segno: non solo come tributo vivo e non celebrativo a Richard Foreman, ma come esempio di come il teatro, quando abbandona la narrazione e abbraccia il rischio, possa diventare un mezzo per esplorare la mente e il mondo.

"Symphony of Rats" ha ricordato che il teatro sperimentale americano non è un museo da commemorare, ma un organismo vivo che sa ancora reinventarsi, mettere in crisi e, soprattutto, suggerire nuove domande. Domande sul potere, sull’identità, sulla percezione e sull'umanità in un’epoca che sembra accelerare verso la sua stessa caricatura.

William Dafoe, che era in platea allo spettacolo inaugurale al Teatro delle Tese dell'Arsenale, ha lavorato stabilmente con il Wooster Group per oltre vent'anni, prendendo parte a molte delle loro produzioni più iconiche. Ha collaborato strettamente con Elizabeth LeCompte, co-fondatrice e regista storica della compagnia (oltre che sua compagna di vita per molti anni). Il suo stile attoriale - fisico, intensamente tecnico e fuori dai codici tradizionali del realismo - è stato fortemente influenzato dal lavoro con il gruppo e, a sua volta, ha contribuito a definirne l’identità. Anche dopo aver intrapreso una brillante carriera cinematografica, Dafoe è rimasto legato alla scena sperimentale e ha continuato a tornare a teatro, in particolare con la compagnia newyorkese. Ad assistere allo spettacolo inaugurale con il presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, anche i direttori dei settori Musica, Caterina Barbieri, e Danza, Wayne McGregor.

(di Paolo Martini)

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