Thom Yorke e soci guidano un set di due ore tra brani introspettivi e chicche da 'The Bends' e 'Ok Computer' per l'ultima di quattro serate da incorniciare. "Grazie, siamo senza parole"
Sperare di sentire la propria canzone preferita a un concerto dei Radiohead è come tentare di afferrare una sagoma nel buio. Inutile provarci: sfugge, si sposta, si nasconde e appare solo e se lo decidono loro. La band di Oxford, del resto, non ha mai amato farsi prevedere, e alla quarta e ultima notte all’Unipol Arena di Bologna conferma la sua natura inquieta, ruvida e imprevedibile. E dire che arrivare fin qui per poterla raccontare è stato un mezzo miracolo. Il sistema d’acquisto dei biglietti - pensato per disinnescare il secondary ticketing - ha trasformato la prevendita in una gimkana fatta di code virtuali, verifiche multiple, accessi bloccati. Migliaia di fan rimasti a bocca asciutta lo raccontano ancora come un piccolo trauma. I 15mila presenti, ogni sera, per quattro sere, invece, sanno di aver conquistato qualcosa che non si ripeterà.
Non è solo per i sette anni di silenzio dai live. È per l’atmosfera: un palco circolare, fasciato da pannelli Led che salgono e scendono come membrane, creando un continuo gioco del ‘vedo-non vedo’ tra la band e la platea e una visione a 360 gradi. Una scenografia minimale, elegante, perfettamente in linea con un tour che non promuove alcun nuovo lavoro discografico ma solo il gusto di suonare. Thom Yorke porta i suoi 57 anni con la grazia anarchica di un ragazzino: danza senza ritmo, barcolla come se fosse ubriaco, spalma nell’aria quelle inquietudini che da trent’anni intrecciano al rock elettronica, malinconia e poesia. Va visto con i propri occhi, ascoltato con le proprie orecchie: nessuna recensione -e ne sono uscite a valanga dalla data di debutto a Madrid- e nessun riascolto compulsivo della loro discografia può preparare davvero all’impatto. Negli ultimi mesi le polemiche l’hanno fatta da padrone: la mancata presa di posizione netta sulla questione Palestina-Israele, i fan in fermento, le discussioni online. Yorke ha provato a chiarire poche settimane fa al Sunday Times: “Non suoneremo più in Israele finché c’è Netanyahu”. Ma come sempre i Radiohead tendono a lasciare che a parlare siano le canzoni.
Sul palco non concedono più di un paio di buonasera e grazie mille. La scaletta dell'ultima serata si apre con ‘2+2=5’, da ‘Hail To The Thief’ del 2003, un inizio teso, geometrico, che fa da detonatore. Da lì, è un continuo ribaltamento: l’inquieta ‘Airbag’, opening track di ‘OK Computer’, del 1997, ‘Jigsaw falling into pieces’, e la malinconia cadenzata di ‘All I Need’, con Yorke al piano che dà corpo e voce all'amore inteso come dipendenza e devozione. Melodie ipnotiche, esplosioni elettriche. ‘No Surprises’ illumina l’arena e strappa un potente applauso. La doppietta in successione di ‘Exit Music (For A Film)’ e ‘Street Spirit (Fade Out)’ prima del bis viene accolta in un silenzio quasi liturgico, prima di dissolversi in un’esplosione di applausi e urla. I brani delle tre serate precedenti ci sono quasi tutti: ‘Ful Stop’, ‘Weird Fishes/Arpeggi’, ‘Nude’ e ‘Pyramid Song’ ma soprattutto il pezzo manifesto ‘Paranoid Android’ e la stratificata ‘Everything In Its Right Place’ che chiude il set come un inno storto e magnifico. “Grazie a tutti, non abbiamo parole” si lascia sfuggire in italiano Thom Yorke.
Sul palco, l’alchimia è quella di sempre: Colin Greenwood costruisce al basso le fondamenta, Phil Selway alla batteria ricama con precisione ogni stoccata, mentre le due chitarre opposte e complementari – il genio inquieto di Jonny Greenwood e la presenza calda di Ed O’Brien – continuano a ridefinire cosa può essere ancora oggi il suono dei Radiohead. E no, ‘Creep’, il brano forse più conosciuto della band, non arriva e non arriverà mai. La nostalgia meglio lasciarla agli altri. Quattro sere, quattro sold out, un ritorno che più atteso non si poteva immaginare. L’ultima notte a Bologna si chiude così, con quindicimila persone che restano a fissare il palco vuoto come se potesse ancora succedere qualcosa. Il loro ritorno dopo sette anni è un test per una band che ha costruito la propria identità su una tensione costante: innovare senza spiegare, spiazzare senza giustificare. Eppure, stavolta, la prova era più complessa del solito. Non si è trattato solo di rimettere in moto una macchina rodatissima ma di dimostrare che il loro posto nell’attuale ecosistema musicale, profondamente mutato, più frammentato e più competitivo, fosse ancora legittimo.
Nelle due ore di show Yorke si muove e canta ancora con un’agilità sorprendente nonostante barba grigia, corpo nervoso e un continuo ondeggiare. Resta la colonna vertebrale dei Radiohead. E con lui la formazione non è da meno: insieme guidano gli ascoltatori attraverso gli angoli più singolari del loro catalogo, per l’ultima sera a Bologna. Un pubblico così devoto e allo stesso tempo così rigido nelle sue aspettative non facilita il compito. I fan più intransigenti, in ciascuna di queste serate, ha storto il naso per la scarsa presenza di brani da ‘The Bends’. Eppure, quando arriva la frenetica ‘Idioteque’ da ‘Kid A’, la risposta entusiasta non tarda a farsi sentire. Dal vivo, i cinque restano una band di una qualità superiore alla media dei colleghi coetanei, forse merito della meticolosità che ancora li contraddistingue e che li ha resi un unicum dagli anni ’90 in avanti.
Anche la loro aura è intatta, forse persino più forte a distanza di anni di silenzio. Dopo l’estate degli Oasis, sui social, da TikTok a Instagram, è scattato l’autunno dei Radiohead e il loro ritorno è diventato un caso. Dal vivo è facile ricordarci perché: il concerto è impeccabile e funziona grazie a scelte visive curate, al suono quasi perfetto, alle scalette variabili a ogni data, per la gioia di chi detesta scelte ripetitive. E mentre il pubblico si disperde fuori dall’arena, torna alla mente l’origine del loro nome, preso in prestito dai Talking Heads: quell’idea di una ‘testa radio’ che capta, distorce e rimanda segnali dal mondo. È forse questo che i Radiohead continuano a fare meglio di chiunque altro: intercettare il rumore della nostra epoca e rimandarcelo indietro, amplificato e imperfetto ma impossibile da ignorare. (di Federica Mochi)