
Le tariffe fissate dagli States assegnano un 15% 'all inclusive' all'import dall'Europa, l'unica ad assicurarsi questo trattamento. Ma restano ancora inattuati gli impegni sull'auto, al centro delle preoccupazioni degli europei.
The Day After, forse la situazione per l'Ue non è poi così brutta come potrebbe apparire con il varo ufficiale delle tariffe Usa, anche se per 'mettere a terra' l'accordo verbale di Turnberry sui dazi, europei e americani dovranno lavorare ancora parecchio. L'ordine esecutivo firmato dal presidente degli Usa Donald Trump, "Further Modifying the Reciprocal Tariff Rates", stabilisce i dazi specifici per ogni partner commerciale della superpotenza nordamericana, che rimpiazzano quelli annunciati il 2 aprile scorso con l'ordine esecutivo 14257.
I nuovi dazi decisi da Trump, ha detto il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic, "riflettono i primi risultati dell'accordo Ue-Usa, in particolare il tetto massimo del 15% sui dazi onnicomprensivi. Questo rafforza la stabilità per le imprese europee e la fiducia nell'economia transatlantica. Gli esportatori dell'Ue beneficiano ora di una posizione più competitiva".
Il commissario slovacco ha sottolineato che "il lavoro continua", perché l'accordo stretto verbalmente tra Trump e von der Leyen andrà ora messo per iscritto, anzitutto in una dichiarazione congiunta, che, in quanto tale, non è né potrebbe essere giuridicamente vincolante. La Commissione aveva detto che sarebbe stata pubblicata entro oggi, ma non è chiaro se la scadenza sarà rispettata: ieri il portavoce al Commercio, Olof Gill, ha detto che potrebbe occorrere più tempo del previsto. La dichiarazione politica dovrebbe delimitare il campo sul quale poi verrà elaborato un vero e proprio accordo commerciale. Per arrivarci, però, occorrerà "lavorare" ancora, come ha detto Sefcovic.
Anche perché c'è un dettaglio non secondario, per l'Unione Europea: l'ordine esecutivo di ieri fissa sì i dazi a tappeto al 15%, ma non attua gli altri elementi dell'accordo di Turnberry. In particolare, non mette a terra l'impegno a diminuire i dazi imposti dagli Usa in base all'articolo 232 del Trade Expansion Act sulle automobili e sui componenti per automobili al 15%. E neppure mette in pratica il trattamento 'speciale' previsto per alcuni prodotti considerati strategici dall'Ue, in particolare gli aeromobili e i componenti per aeromobili.
Proprio il settore auto, insieme a quello dei farmaci, è stato il motivo principale che ha spinto l'Ue ad accettare l'accordo, come ha spiegato il segretario Usa al Commercio Howard Lutnick: con dazi al 25%, le esportazioni di auto dall'Ue agli Usa verrebbero azzerate, con il risultato che la produzione, con ogni probabilità, migrerebbe massicciamente oltre Atlantico. La stessa cosa avverrebbe per i farmaci: Lutnick ha detto che anche la Francia, che pure "ha tanto da dire", in questo modo ha evitato che Sanofi diventasse "un'azienda americana".
I nuovi dazi sulle importazioni negli Usa si applicheranno per tutti i partner commerciali degli Usa a partire dall'8 agosto; alle merci già in transito o quelle già nei magazzini per essere consumate prima dell'8 agosto, si applicherà la precedente tariffa, cioè il 10% più quella derivante dalla clausola della nazione più favorita (Mfn). L'ordine esecutivo fissa le nuove tariffe doganali per oltre 90 Paesi (una settantina se si considera l'Ue come un tutt'uno), che vanno dal 41% fissato per la Siria e dal 40% per il Laos al 10% per il Regno Unito.
Per quanto riguarda l'Europa, Donald Trump ha mantenuto la parola data in Scozia, dove nel golf resort di sua proprietà ha stretto un accordo politico con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, domenica 27 luglio: l'ordine esecutivo introduce un dazio unico e onnicomprensivo del 15% sulle merci provenienti dall'Unione Europea. Un livello che va confrontato con il 20% annunciato il 2 aprile e con il 30% che Trump aveva minacciato di applicare all'Ue all'inizio dell'incontro di Turnberry, come ha riferito Sefcovic. Forse era un bluff, ma andare a vedere le carte del presidente Usa può essere molto rischioso.
Come capita spesso, il diavolo è nei dettagli: le merci dell'Ue saranno soggette a un massimale tariffario del 15%, massimale che però include le tariffe applicate alla nazione più favorita (Mfn), salvo nei casi in cui la Mfn sia superiore al 15%. In questi casi, si applicherà l'aliquota tariffaria Mfn più elevata e il trattamento rimarrà invariato rispetto al periodo precedente al 2 aprile.
La clausola della nazione più favorita, base del libero commercio internazionale, prevede che, se un Paese concede ad un altro Paese un dazio più basso, questo si estende automaticamente a tutti gli altri partner commerciali, assicurando parità di trattamento.
L'Unione Europea, pur essendosi piegata ad accettare un 'trattato ineguale' che ha sollevato un'ondata di polemiche (anche per il modo in cui ha ceduto a Trump, andando a trattare nel suo golf resort), è l'unico partner commerciale degli Stati Uniti ad aver ricevuto questo trattamento più favorevole, che evita l'accumulo di dazi.
Per tutti gli altri partner commerciali (ad eccezione del Messico e del Canada, ai quali si applica un regime diverso), i dazi reciproci appena determinati si aggiungeranno ai dazi Mfn applicabili. Quindi, paragonare il 15% ottenuto dall'Ue al 15% applicato a Paesi come la Repubblica Democratica del Congo, la Costa d'Avorio, il Camerun e la Guinea Equatoriale, anche se fa effetto, è scorretto, perché il 15% europeo è inclusivo della tariffa Mfn, mentre gli altri vanno sommati alla stessa.
Magra consolazione, forse, per quella che si è spesso autodefinita una "superpotenza commerciale" e che si è ritrovata a doversi piegare a firmare un accordo ineguale, perché politicamente debole e divisa. Oltretutto, in un hotel di proprietà di Trump, tra una partita di golf e l'altra del presidente Usa. Al di là dell'orgoglio europeo ferito, tuttavia, il punto è che sul tavolo, a Turnberry, non c'era solo il commercio, come ha spiegato con estrema chiarezza Maros Sefcovic.
C'erano questioni anche più importanti, come il destino dell'Ucraina e la difesa dell'Europa, che allo stato attuale gli europei, senza l'ombrello degli Usa, non sono in grado di assicurare, perché per decenni hanno tagliato risorse ai propri eserciti, facendo orecchie da mercante davanti ai ripetuti appelli arrivati dagli Usa, ben prima di Trump, affinché la spesa militare venisse incrementata.
Senza le armi nucleari tattiche americane dispiegate in Europa, non esisterebbe, o quasi, deterrenza nei confronti di eventuali velleità espansioniste della Russia che, vista la guerra in corso in Ucraina, non possono essere escluse. Specie per quanto riguarda i Paesi Baltici, che facevano parte dell'Urss. Paesi che Vladimir Putin, che è nato a Leningrado, oggi San Pietroburgo, a un tiro di schioppo dall'attuale Estonia, dove i leningradesi avevano le loro dacie fuori porta, vede come il fumo negli occhi.
Forse il bicchiere non è così vuoto: il presidente del Portogallo, Marcelo Rebelo de Sousa, ha detto ieri da una base militare nelle Azzorre, nel cuore dell'Atlantico del nord, che l'accordo è "positivo", perché Trump ha capito che agli Usa conviene collaborare con gli europei. E' molto raro che i capi di Stato parlino a caso. I mercati finanziari europei oggi cedono, ma relativamente: il Ftse Mib, l'indice guida di piazza Affari, aveva appena superato i 40mila punti, toccando i suoi massimi storici, e a un'ora dalla chiusura viaggia sui 39.995 punti (a gennaio era poco sotto quota 34.400), cedendo il 2,5%. Intanto, l'Ue con l'accordo ha ottenuto un immediato sollievo sul piano dei dazi, ristabilendo un minimo di stabilità e di prevedibilità per le proprie imprese. E soprattutto, pur pagando dazio, ha mantenuto agganciati gli Stati Uniti. Senza i quali la partita a scacchi in corso con la Russia sul futuro dell'Ucraina sarebbe persa in partenza.