
L’esito del referendum che si è tenuto l’8 e il 9 giugno è difficilmente equivocabile. I cinque quesiti, tre sul lavoro, uno sugli appalti e uno sulla cittadinanza, non hanno raggiunto il quorum, con un’affluenza che si è fermata al 30,6%. Una sconfitta per chi li ha promossi, ammessa per primo dal leader della Cgil Maurizio Landini. Le forze di opposizione che li hanno sostenuti, Pd, M5S, AVS, considerano però i quasi 15 milioni di persone che hanno votato un punto di partenza per organizzare l’alternativa al centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Il risultato ha però acceso una dialettica interna al PD, con la minoranza riformista che ha esplicitamente contestato l’opportunità di sostenere in particolare i quesiti sul lavoro, che avrebbero smontato definitivamente l’impianto del Jobs Act renziano, già ‘corretto’ da modifiche intervenute nel tempo. C’è chi ha parlato di ‘regalo al centrodestra’, contestando una deriva a sinistra del partito. Nell’equilibrio più largo della potenziale alleanza del ‘campo largo’ sono soprattutto le questioni internazionali, dal rapporto con Israele per la crisi a Gaza e la nuova guerra con l’Iran al sostegno all’Ucraina, a tenere banco. E a vivere nuove fibrillazioni è sempre il Pd, il partito che al suo interno vede confrontarsi anime diverse. Il Partito di Elly Schlein non ha aderito alla manifestazione contro il riarmo che si è tenuta a Roma lo scorso weekend, e le adesioni isolate di alcuni componenti del Partito hanno evidenziato ancora una volta la spaccatura interna in relazione al riarmo europeo previsto dal piano Von der Leyen. Alla manifestazione invece hanno partecipato i leader delle altre forze di opposizione, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, evidenziando ancora una volta come le opposizioni su questi temi siano distanti tra loro.