
La ricostruzione del diverbio all’ospedale universitario Tor Vergata con un'assistente
"In sala operatoria si combatte per la vita e io sono responsabile. Riconosco che i toni usati nei confronti di una collega assistente durante quell'intervento, protrattosi per oltre cinque ore, sono stati eccessivi". Lo racconta in una nota il professor Giuseppe Sica, docente ordinario di chirurgia, che lo scorso 6 giugno, durante un'operazione di chirurgia robotica all’ospedale universitario Tor Vergata di Roma, sarebbe stato coinvolto in un acceso diverbio con una collega più giovane.
"In sala operatoria si combatte per la vita. E io voglio vincere, sempre. Viviamo in un mondo che spesso sembra capovolto. Un mondo dove si giudica con superficialità ciò che non si conosce. Eppure, ci sono luoghi, come la sala operatoria, in cui non si può permettere né leggerezza né approssimazione", afferma Sica.
"Mi trovo a intervenire pubblicamente perché sento il dovere di raccontare cosa accade davvero quando si entra in sala operatoria per affrontare un caso clinico complesso, come quello su cui stavo operando di recente. Un intervento lungo, delicato, che richiedeva altissima concentrazione e prontezza di riflessi", ricostruisce.
"Come chirurgo capoequipe, operavo attraverso una consolle robotica, strumento all’avanguardia che consente precisione millimetrica. Al tavolo operatorio, come avviene in tutte le strutture moderne, erano presenti colleghi assistenti, professionisti, donne o uomini non fa differenza, il cui compito è agire in piena sinergia con chi guida l’intervento. La sala operatoria è un teatro: un atto unico, irripetibile. È il fronte dove si combatte davvero tra la vita e la morte. In quei momenti, ogni secondo conta. La responsabilità è mia, totalmente mia - sottolinea - Anche se qualcuno inciampa, anche se qualcosa non funziona, anche se si avvicina il pericolo. E se percepisco un rischio concreto per il paziente, è mio dovere reagire. Sì, anche con fermezza. Sì, anche con durezza. Il nostro ordinamento giuridico chiama questo comportamento 'stato di necessità' ed è un’esimente assoluta. In quei momenti, si fa ciò che serve per salvare una vita. Punto".
"Tuttavia, riconosco che i toni usati nei confronti di una collega assistente durante quell'intervento, protrattosi per oltre cinque ore, sono stati eccessivi e dettati da uno stato di forte tensione e stress emotivo. Per questo, desidero esprimere pubblicamente le mie scuse sincere e personali alla collega coinvolta. Non era mia intenzione mancare di rispetto, ma reagire a una situazione che in quel momento ho percepito come potenzialmente critica per il buon esito dell’intervento. Tengo inoltre a precisare che mi sono già scusato personalmente con la collega e con lei ho avuto un chiarimento franco e sereno. Il rispetto umano e professionale tra colleghi è per me un valore imprescindibile. Se fossi io su quel tavolo, vorrei che il chirurgo che mi opera facesse tutto il possibile per tenermi in vita. Anche urlando, se necessario. Non vorrei qualcuno che tace per paura della gogna mediatica o del politicamente corretto. Il mio mestiere non è spettacolo. È scienza, tecnica, istinto, sangue freddo. E, soprattutto, è responsabilità. Ed è proprio per senso di responsabilità che oggi prendo la parola", conclude.