
Pechino usa la guerra a Gaza per logorare l'immagine di Washington in Medio Oriente e nel Sud globale. Lo studio dell'Inss
Per lungo tempo la Cina è stata considerata un Paese privo di antisemitismo strutturale. Anzi, la sua immagine “filosemita” era alimentata da una visione positiva degli ebrei come popolo ingegnoso e capace di successo economico, senza episodi storici di persecuzione paragonabili a quelli europei. Negli ultimi due anni questo scenario si è progressivamente ribaltato. Dopo il massacro del 7 ottobre e la guerra di Gaza, Pechino è accusata di aver tollerato – se non promosso – l’aumento della retorica antisemita, amplificata dai media statali e dalle piattaforme digitali domestiche.
Un recente rapporto dell’Inss (Institute for National Security Studies) di Tel Aviv analizza in dettaglio questa trasformazione. Il documento mostra come la Repubblica Popolare abbia messo in campo una campagna di influenza multilivello, con l’obiettivo non tanto di colpire Israele in quanto tale, quanto di indebolire la posizione degli Stati Uniti nel Medio Oriente e nel Sud globale. Le condanne a senso unico contro Tel Aviv, l'amplificazione della propaganda di Hamas e Iran, i paralleli tra Gaza e lo Xinjiang o tra Israele e i criminali giapponesi della Seconda guerra mondiale non sono episodi isolati, ma parte di una strategia comunicativa che lega la guerra d'informazione al confronto tra superpotenze.
Secondo il report, questa campagna si articola su quattro assi principali:
• la stampa statale, che propone Israele come "proxy americano" e mette in cattiva luce il sostegno Usa al governo di Netanyahu;
• operazioni online "coperte", con reti riconducibili a Pechino impegnate a diffondere contenuti anti-israeliani e complottismi antisemiti;
• la censura selettiva sulle piattaforme domestiche, che permette la circolazione di narrazioni ostili mentre ostacola voci pro-Israele;
• il ruolo di organizzazioni esterne, finanziate o ideologicamente vicine al Partito comunista, capaci di amplificare questi messaggi in Occidente.
L'obiettivo, scrive l'Inss, è "colpire gli Stati Uniti attraverso Israele", sfruttando la crisi per erodere la credibilità americana e guadagnare punti nel mondo arabo-musulmano e nel Sud globale.
L'allosemitismo come chiave di lettura
Questa dinamica si lega anche a un'evoluzione ideologica interna. In un’intervista a Emanuele Rossi per Formiche, l’analista israeliano Tuvia Gering aveva sottolineato come il cambiamento cinese sia “non soltanto una trasformazione ideologica né semplicemente un aggiustamento tattico, ma piuttosto un intreccio di entrambi gli elementi”. La categoria dell’“allosemitismo”, che descrive una visione ambivalente degli ebrei come insieme ammirati e temuti, aiuta a spiegare la rapidità del passaggio da un filosemitismo superficiale a una ostilità alimentata dal nazionalismo han e dalla propaganda patriottica lanciata da Xi Jinping.
Gering ricorda inoltre che l’antisemitismo in Cina “non nasce da radici religiose profonde, ma da una proiezione ideologica e politica. Israele viene usato come strumento di confronto con gli Stati Uniti: più viene demonizzato, più si logora l’immagine americana”.
Il 7 ottobre come spartiacque
La guerra di Gaza ha accelerato il processo. Dal giorno successivo agli attacchi di Hamas, la Cina ha condannato Israele senza nominare Hamas, allineandosi alla retorica di Russia e Iran. Sui social cinesi si è registrata un’ondata di contenuti ostili, compresi paragoni tra Israele e il nazismo o teorie del complotto sul “controllo ebraico” dei media e della finanza. La loro persistenza, in un ecosistema rigidamente controllato dal Partito comunista, ha suscitato sospetti sulla reale volontà delle autorità di intervenire.
Eppure, la Cina non sembra intenzionata ad assumere un ruolo attivo di mediatore. Il tentativo di presentarsi come “costruttore di pace”, già visibile nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita del 2023, si è arenato di fronte alla complessità della crisi israelo-palestinese. Come rileva l’Inss, Pechino preferisce trarre vantaggio politico dalle difficoltà americane piuttosto che investire capitale diplomatico per la risoluzione del conflitto.
I limiti della proiezione cinese
Questa strategia presenta però limiti evidenti. Nel Medio Oriente, la sicurezza regionale continua a dipendere dagli Stati Uniti, sia nel contenimento dell’Iran sia nella cooperazione antiterrorismo. La Cina resta lontana dal farsi garante dell’ordine regionale e si accontenta di capitalizzare sulla crisi reputazionale americana.
Per Israele, il contraccolpo è stato forte: dopo l’impressione di un “tradimento” da parte di Pechino, solo negli ultimi mesi sono arrivati segnali di disgelo, come l’incontro tra i ministri degli Esteri Wang Yi e Gideon Sa’ar. Ma la fiducia resta incrinata.
Le implicazioni per l’Europa
Per l’Europa e l’Italia, il tema non è marginale. Le campagne di influenza straniere che usano l’antisemitismo come strumento possono riverberarsi nelle opinioni pubbliche, alimentando polarizzazione, odio online e minacce alla sicurezza delle comunità ebraiche. Inoltre, sul piano strategico, l’Ue deve fare i conti con l’uso dell’antisemitismo come arma narrativa nel proprio quadro di valutazione dei rischi nei rapporti con Pechino: l’odio antiebraico è, oggi più che mai, uno strumento geopolitico.