Esce "La scossa globale" (Rizzoli), e l'Adnkronos ha intervistato Maurizio Molinari: Trump che fa pace con l'Onu, la Germania come guida europea, l'Italia hub energetico
L'ordine internazionale è sospeso, siamo nell'età dell'incertezza, eppure negli ultimi anni il Pil dei paesi più dinamici è cresciuto in modo sostenuto e la finanza ha festeggiato un record dopo l'altro. Com'è possibile? L'Adnkronos lo ha chiesto a Maurizio Molinari, editorialista di 'Repubblica' e autore di "La Scossa globale", appena arrivato in libreria per Rizzoli.
L’instabilità internazionale non è più un freno, ma è diventato un motore del mondo contemporaneo. Come spieghi questa apparente contraddizione?
È così, il business oggi va assieme all’instabilità. Noi siamo cresciuti in un mondo, dopo il 1945, in cui stabilità significava prosperità. Ma la storia dell'uomo, fino alla Prima guerra mondiale, racconta l’opposto: le grandi ricchezze si sono generate in stagioni di guerre e conflitti decennali. Oggi stiamo tornando a quella fase. Conflitto e crescita possono coesistere, ed è uno degli aspetti più brutali e sorprendenti di questa “scossa globale”. Quando c’è incertezza, il commercio vale di più: chi riesce a commerciare in condizioni difficili moltiplica il valore dei propri affari. È successo con la Repubblica di Venezia, con l’Impero cinese. Oggi i mercati si stanno adattando a questa logica.
Nel libro scrivi che “la scossa con cui Trump investe l’ordine internazionale può avere tre esiti: un nuovo equilibrio fra Usa, Cina e Russia; una fase di conflitti diretti o per procura; o una lunga stagione di instabilità endemica, con un domino di crisi militari ed economiche”. I mercati lo hanno capito prima della politica.
Un tempo gli shock facevano crollare i mercati. Oggi no, perché l’economia globale ha interiorizzato il conflitto come fattore permanente. La teoria della “guerra dei dazi”, elaborata da Robert Lighthizer, spiega proprio questo: i dazi sono strumenti per ottenere risultati politici o sociali, non solo economici. Il punto di incontro fra i nuovi leader mondiali è che fanno accordi personali, e dunque politici, non economici. La politica domina l’economia, e non viceversa. È il segno della nuova era: un mondo di imperi e di leader tribali.
A proposito di nuovi imperi, nel libro dedichi molte pagine al Medio Oriente. In Europa, a parte della crisi di Gaza, non si parla molto delle nuove potenze regionali, dal Nord Africa al Golfo.
Perché l’Europa continua ad avere un approccio neocoloniale. Pensa di poter dire al resto del mondo come definirsi. La realtà è che quella regione è ormai matura e molto pragmatica. Ho visto con i miei occhi, durante un forum ad Abu Dhabi, come emiratini, egiziani, giordani, israeliani e perfino qatarini abbiano reagito al bombardamento di Doha da parte di Israele: con freddezza, come a un episodio della vita regionale, passato il quale andare avanti con l’agenda. Loro ragionano in termini di connettività, non di confini. Guardano al Medio Oriente come a un ponte tra Asia ed Europa. Se creano infrastrutture e interessi comuni, diventano protagonisti. Sono pragmatici, noi europei siamo ideologici.
In questi giorni si parla della proposta di Trump, destinata al Consiglio di Sicurezza Onu, per una forza internazionale di sicurezza a Gaza. Ti sembra un progetto realistico?
Sì, ma con molti punti di equilibrio delicati. Gli Stati Uniti stanno cercando di coinvolgere due Paesi musulmani che hanno dato disponibilità a inviare truppe: Egitto e Indonesia. L’Egitto è in pace con Israele, l’Indonesia vuole esserlo. Entrambi, però, chiedono una copertura politica: disarmare Hamas significa entrare casa per casa, con il rischio di scontri. E qui sta la novità: per un leader unilaterale come Trump, rivolgersi alle Nazioni Unite è un passo enorme. Significa che la ricostruzione di Gaza è talmente importante da giustificare un compromesso con un’istituzione che non ha mai amato. E ancora più significativo è che Russia e Cina non si oppongano. È una convergenza inedita, che rivela come tutti e tre — Stati Uniti, Russia e Cina — abbiano capito che il Golfo e il Medio Oriente sono la chiave del futuro.
L’Europa, in questo scenario, può ritrovare un ruolo? Nel libro suggerisci di "consegnare" la guida politica dell'Unione alla Germania.
Se l'Europa non decide di diventare un attore politico, qualcuno dovrà pur farlo. In un mondo di potenze o aspiranti tali, Stati Uniti, Russia e Cina non trattano con Bruxelles, ma con Berlino. Quando Washington immagina una forza europea dentro la Nato, guarda agli investimenti tedeschi. Quando Mosca minaccia il Paese che più sostiene l’Ucraina, minaccia la Germania. Quando la Cina pensa a superare i dazi americani, pensa alla Germania come porta d’ingresso nel mercato europeo.
Siamo in una fase brutale delle relazioni internazionali: contano i numeri, e la Germania è il Paese più ricco, potente e popoloso d’Europa. È inevitabile che assuma la leadership, anche controvoglia. È vero che vive una crisi di identità e resistenze interne, ma la forza degli eventi la obbligherà a guidare. L’Italia, in questo contesto, fa bene ad avvicinarsi a Berlino. Essere due Paesi occidentali nel cuore dell’Europa, capaci di guardare a Washington ma anche di interagire con Mosca e Pechino, è la scelta più intelligente possibile.
A proposito di Italia: qual è la strategia più realistica in questo nuovo contesto globale?
Dobbiamo puntare su tre assi: energia, connettività e commercio. Siamo al centro del Mediterraneo, il nostro ruolo naturale è essere trait d’union tra mondi diversi, restando nel quadro occidentale. Si parte dall’energia, come intuì Mario Draghi quando disse che l’Italia poteva diventare la porta energetica dell’Europa. Poi vengono i cavi sottomarini e i dati digitali, che sono la nuova infrastruttura della ricchezza. Infine l’Imec, il corridoio India–Medio Oriente–Europa, che ci proietta verso il futuro dei commerci globali. Il porto chiave, per me, è Trieste: è la via diretta verso la Germania, il cuore industriale dell’Europa. E ancora una volta torna la parola che sintetizza tutto: connettività. È da lì che passa la nuova centralità italiana. Si stanno schiudendo per il nostro paese delle straordinarie opportunità di crescita e sviluppo, come sempre avviene in tempo di guerra. (di Giorgio Rutelli)