
Il confronto guidato da Giorgio Rutelli mette insieme scelte di difesa, continuità operativa delle infrastrutture e ruolo del settore privato
Nel secondo episodio di “State sicuri. Dentro la sicurezza che cambia”, il confronto guidato da Giorgio Rutelli mette insieme scelte di difesa, continuità operativa delle infrastrutture e ruolo del settore privato. In studio Stefania Craxi (presidente commissione esteri e difesa del Senato), Marco Mignucci (ad Italpol Vigilanza e vicepresidente Assiv) e, in chiusura, l’analisi storica di Matteo Mazziotti di Celso, ricercatore dell’Università di Genova e autore di un libro in uscita sull’impiego di militari per compiti di polizia. Ne esce una trama unica: la sicurezza oggi è multidominio – militare, economica, tecnologica e sociale – e richiede cooperazione stabile tra istituzioni e imprese.
Craxi parte da una constatazione: “Adesso è ovvio e evidente che nessun paese si può difendere da solo”, dunque l’Italia si muove nel quadro dell’alleanza atlantica, con un contributo specifico alla “road map della Nato 2030”, specie sulla sponda sud (Mediterraneo e Africa). La presidente richiama anche lo sforzo di bilancio: “Abbiamo alzato la nostra spesa per la difesa per arrivare al 5% sull’arco di 10 anni”, con attenzione a interoperabilità e resilienza delle infrastrutture. Ma il punto politico è la governance: non “collaborazione”, dice, bensì “un rapporto strategico di sinergie” con il privato, perché “le aziende detengono il know-how, i dati sensibili, gli strumenti per la vita dei cittadini” e possono garantire “velocità di risposta e continuità” dove lo Stato non sempre riesce.
Dal campo operativo arriva la prospettiva di Mignucci: la protezione non è più solo fisica. “La sicurezza deve essere una sicurezza integrata”, quindi fisico + digitale. Italpol – spiega – ha sviluppato un proprio “Siam”, un sistema di monitoraggio continuo gestito da operatori certificati, primo passo verso un centro capace non solo di osservare ma di intervenire sulle minacce, a beneficio dei clienti e dell’affidabilità dei servizi. L’idea si lega alla sussidiarietà: nei presìdi statici, l’impiego di guardie particolari giurate potrebbe liberare risorse di militari e forze di polizia per addestramento e missioni ad alto valore, a condizione di alzare ulteriormente gli standard formativi delle gpg con protocolli condivisi tra istituti di vigilanza, forze dell’ordine e forze armate.
Mazziotti di Celso ricostruisce la lunga storia dell’impiego dei militari in compiti di polizia: non nasce nel 2008 con “Strade sicure” né nel 1992 con “Vespri siciliani”, ma affonda nel dopoguerra, quando l’esercito sostenne forze di polizia fragili in un Paese da ricostruire. Oggi, nel confronto europeo, l’uso “massiccio” – “migliaia di uomini per compiti di polizia” – “si vede davvero soltanto in Italia”, mentre in Francia, Belgio e Regno Unito esperienze analoghe sono state limitate e temporanee. Se dopo l’invasione russa dell’Ucraina l’obiettivo è avere forze pronte a uno scontro convenzionale, avverte, “bisognerebbe limitare l’impiego di militari in queste operazioni” perché sottraggono tempo all’addestramento. Tuttavia, rimodulare queste missioni è "complicato" per ragioni culturali e politiche: "Gli italiani sono favorevoli, e le forze di polizia sanno che possono contare su migliaia di militari a supporto".
Il filo che unisce le tre voci è la richiesta di un salto di qualità: definire una cabina di regia nazionale che allochi in modo efficiente militari, forze di polizia e vigilanza privata; fissare standard formativi comuni e certificazioni spendibili; integrare davvero protezione fisica e cyber; accompagnare la difesa europea con una filiera industriale-tecnologica capace di garantire continuità ai servizi essenziali. È la cornice di una sicurezza “di sistema” che coinvolge istituzioni, imprese e comunità locali.