Meta presenta ricorso contro la delibera Agcom sulle Cdn: cosa vuol dire per il settore tech

Si aggiunge a Aws, Netflix e Cloudflare, che temono una "network fee" mascherata, con l'Italia che si muove senza coordinarsi con Bruxelles

Meta presenta ricorso contro la delibera Agcom sulle Cdn: cosa vuol dire per il settore tech
13 novembre 2025 | 17.07
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Meta ha presentato un ricorso formale contro la delibera dell’Agcom sulle reti di distribuzione dei contenuti (cdn), unendosi così a Netflix, Amazon web services (Aws) e Cloudflare nel fronte delle grandi piattaforme contrarie al provvedimento approvato dall’Autorità la scorsa estate. La notizia segna un ulteriore irrigidimento dello scontro tra big tech e regolatore italiano, accusato di voler introdurre un quadro normativo unico in Europa.

In una nota di un portavoce, Meta afferma che la delibera “viola le normative europee e italiane in materia di telecomunicazioni e rischia di compromettere l’innovazione e gli investimenti nell’ecosistema digitale italiano”. Se attuata, sostiene l’azienda, spingerebbe i provider ad appoggiarsi a infrastrutture estere, con “peggiori prestazioni e un’esperienza inferiore per gli utenti italiani”. Secondo Meta, inoltre, il testo tenta “di introdurre delle network fee, nonostante le gravi carenze e le diffuse critiche rivolte a iniziative analoghe a livello europeo”.

La posizione è condivisa da più operatori globali: Netflix e Aws, già nelle scorse settimane, hanno contestato pubblicamente la misura, mentre associazioni del digitale e diversi operatori della rete l’hanno definita “un precedente pericoloso” nel mercato unico europeo.

Che cos’è la delibera Agcom sulle CDN

La delibera 207/25/cons, approvata a fine luglio, stabilisce che le cdn installate o operative in Italia debbano essere considerate alla stregua di “reti di comunicazione elettronica” e dunque soggette al regime di autorizzazione generale previsto dal Codice delle comunicazioni elettroniche. In pratica, l’Agcom introduce un nuovo perimetro regolatorio per infrastrutture che – pur non essendo reti di telecomunicazioni in senso stretto – ospitano cache, server e nodi di distribuzione dei contenuti direttamente all’interno delle reti degli operatori italiani.

L’Autorità motiva la scelta con l’esigenza di creare maggiore trasparenza sulle infrastrutture che veicolano volumi crescenti di traffico, assicurare condizioni eque di interconnessione, vigilare su un settore ritenuto ormai “cruciale” per la qualità dei servizi digitali al consumatore. Il provvedimento arriva dopo una consultazione pubblica avviata a inizio anno e dopo la precedente attività di vigilanza dell’Agcom su alcune reti di edge caching.

Perché le big tech contestano la misura

Il punto centrale della protesta riguarda la natura stessa delle cdn: per Meta, Netflix, Aws e altri operatori globali, equiparare queste infrastrutture alle reti di telecomunicazioni crea un precedente che nessun altro Paese europeo ha adottato.

Secondo le piattaforme:

la delibera introduce oneri e obblighi tipici degli operatori di rete, non previsti dalla normativa europea per le cdn;

il provvedimento è vago: non definisce con precisione che cosa sia una cdn, chi ne sia fornitore, quali attività siano comprese e quali siano i confini regolatori;

la misura equivale a un “fair share” mascherato, cioè un tentativo di introdurre costi o dispute obbligatorie con le telco, in modo simile alla proposta europea di “network usage fee” che è stata bocciata dall’accordo tra Donald Trump e Ursula von der Leyen seguito al loro incontro in Scozia;

l’Italia rischia di isolarsi: nessun regolatore europeo sta trattando le cdn come reti di telecomunicazioni, mentre Bruxelles lavora al Digital networks act.

Il caso cdn nasce in Italia con Dazn: quando l’operatore si trovò come unico distributore delle partite del campionato italiano, con grossi problemi di banda e qualità del servizio, l’Autorità intervenne per garantire agli utenti un servizio adeguato all’impegno che aveva preso l’azienda.

Le big tech americane hanno posizioni diverse: il fatto che, nel caso di Aws, le sue cdn sono pubbliche, non interagiscono con l’utente finale (diversamente da Dazn) e dunque sono un’infrastruttura “cieca” rispetto ai contenuti che ospita. Netflix sostiene l’opposto: le sue cdn ospitano solo i suoi dati e dunque non possono essere equiparate alle telco. Meta invece ha finanziato da sola la propria rete di cdn, quindi secondo la sua prospettiva va ad alleggerire il carico sulle reti, non ad aggravarlo come invece lamentano le societa di telecomunicazione.

Il nodo politico e industriale: innovazione, investimenti e qualità del servizio

Il timore comune alle piattaforme è che il nuovo regime regolatorio renda più complessa o più costosa la presenza di server e nodi di distribuzione in Italia. Le cdn – che oggi permettono streaming più fluido, tempi di caricamento più rapidi e minori costi di transito – potrebbero essere ridimensionate o ricalibrate, spingendo le aziende a spostare parte delle loro infrastrutture all’estero.

Sul fronte opposto, una parte del settore telecom guarda con favore alla decisione dell’Agcom, ritenendo che la crescita esponenziale del traffico generato dalle grandi piattaforme richieda regole più chiare, trasparenza sulle infrastrutture e garanzie di equilibrio nei rapporti di interconnessione.

Il passo successivo all’adozione della delibera, in ogni caso, sarà un regolamento del Mimit che dovrà definire cosa è una cdn e quali regole andranno applicate. In base all’approccio del ministero guidato da Adolfo Urso, più leggero o più incisivo, si capirà davvero che sorte avrà questo settore in Italia.

Una questione italiana con effetti europei

Il caso cdn–Agcom si inserisce in un momento delicato, in cui il legislatore europeo sta definendo la prossima fase della politica industriale delle reti, con il Digital networks act e con l’obiettivo di rafforzare le infrastrutture di nuova generazione. Il lancio del DNA, promesso entro fine anno, pare sarà rimandato al 2026.

Se l’Italia dovesse procedere con un approccio divergente rispetto al resto dell’Unione, sono garantite frizioni tra operatori, telco e piattaforme, con effetti sul mercato italiano (e anche su quello europeo).

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