
L'autore di "Metodo Srebrenica": "L'nsistenza continua sul domandarsi se si sia trattato o meno di genocidio serve soltanto a non parlare dei fatti"
Trent'anni dopo, Srebrenica rimane una questione irrisolta. Disattenzione e ignoranza, negazione o relativizzazione di quanto accaduto, favorite dalle elite locali, non consentono di far emergere "nella società serba e tra i serbi in Bosnia ed Erzegovina nemmeno un accenno a un atteggiamento diverso, più onesto e autocritico, verso il genocidio", fatta eccezione per alcune organizzazioni non governative e pochi individui che agiscono pubblicamente. Ne è convinto Ivika Dikic, giornalista, scrittore, sceneggiatore croato, autore di 'Metodo Srebrenica', Bottega Errante Edizioni, nuova edizione riveduta e ampliata in cui l'autore espande la narrazione ai mesi successivi al massacro di oltre 8mila ragazzi e uomini bosgnacchi compiuto a partire dall'11 luglio 1995, e al processo al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia all'Aja.
"Non sono ottimista sul fatto che ciò possa cambiare nemmeno in un futuro prossimo perché la corrente dominante dell’élite politica, intellettuale e religiosa serba è ossessionata dall’idea di contestare il riconoscimento giuridico di genocidio. Questo riconoscimento è meno importante dei fatti e della verità su Srebrenica, e l’insistenza continua sul domandarsi se si sia trattato o meno di genocidio serve soltanto a non parlare dei fatti", denuncia, parlando con l'Adnkronos, l'autore del 'romanzo documentario' tradotto da Silvio Ferrari e Marijana Puljić, che racconta il "come" di un crimine pianificato e attuato con meticolosa precisione e ricostruisce ogni fase dell'operazione seguendo la figura del colonnello Ljubiša Beara, condannato per genocidio dal Tribunale dell’Aja, morto nel 2017 in carcere a Berlino, dove scontava una condanna all'ergastolo.
Tra i motivi che lo hanno indotto a pubblicare una seconda edizione, lo stesso Dikic cita nel prologo "il desiderio di proteggere in qualche modo Beara da quella narrazione che dopo la sua morte si sta trasformando in una sorta di verità serba semiufficiale sul genocidio di Srebrenica". Secondo questo costrutto, spiega ancora, "Beara è l'unico colpevole, lui ha ideato, organizzato e compiuto ogni cosa, lui ha preso la decisione di uccidere ottomila prigionieri bosgnacchi in tre-quattro giorni coinvolgendo centinaia di persone nell'esecuzione materiale o in altri aspetti del massacro. Questa costruzione insensata mira a negare o perlomeno offuscare il carattere sistemico del genocidio, il che implicherebbe anche il ruolo avuto dagli apparati statali della Repubblica di Serbia. Da questa narrazione è necessario difendere non tanto il defunto Beara quanto la Serbia e i serbi dell'ex Jugoslavia, affinché non cadano vittime di un'autoillusione e di una vita fondata su una menzogna riguardo a un evento destinato a rimanere per sempre tra le pagine più oscure della storia serba".
Neanche guardando alle nuove generazioni, in Serbia e altrove, Dikic si mostra ottimista sulla possibilità di un futuro di riconciliazione e convivenza, basato su conoscenza e desiderio di riflettere. "Mi dispiace dover dire ancora una volta che non sono ottimista", ribadisce, rispondendo alla domanda. "Ciò non significa che penso che ci sarà una nuova guerra, ma non ci sarà nemmeno un progresso significativo. Il ricordo della guerra è molto vivo e le politiche di guerra vengono attivamente glorificate. Le strutture al potere – ma in larga misura anche quelle di opposizione – sono impregnate di nazionalismo, e vedono nell’esaltazione delle politiche di guerra il modo più semplice per stimolare gli istinti più bassi, cioè per ottenere voti alle elezioni. È un circolo vizioso dal quale non vedo via d’uscita, perché chiunque si opponga viene immediatamente marchiato pubblicamente come traditore della nazione e elemento antigovernativo".
"Beara fu più di un semplice ingranaggio obbediente nel complesso meccanismo della morte", "le decisioni che prese in quei giorni furono cruciali e fatali, ma il colonnello non avrebbe potuto decidere né attuare nulla se non avesse agito sotto l'autorità conferitagli da Ratko Mladic e da chi avrebbe avuto il potere di fermare quest'ultimo. E gli unici che in un modo o nell'altro avevano veramente il potere di fermare Mladic si trovavano a Belgrado", scrive ancora.
Né si può dimenticare il ruolo dell'Onu nel non prevenire l'orrore di quei giorni, il genocidio compiuto all'interno di un centro abitato dichiarato 'enclave protetta' delle Nazioni Unite: "Le Nazioni Unite e le truppe armate dell’ONU presenti sul campo avrebbero dovuto fare tutto il possibile per evitare il genocidio, ma non hanno fatto praticamente nulla, non hanno nemmeno provato a intraprendere un'azione seria per fermare le sistematiche uccisioni", spiega all'Adnkronos. "Srebrenica resterà per sempre una macchia tra le più grandi nella storia dell’ONU e della politica internazionale in generale. Né l’Onu né il mondo però si sono confrontati sinceramente con questo loro fallimento, e quindi non ne è potuta derivare nemmeno un'adeguata lezione".
"Questo libro è nato dal tentativo di comprendere l'incomprensibile". Nonostante tutto però "non sono riuscito a trovare una risposta chiara alla domanda: perché?", scrive l'autore. "Questo è il meglio che sono stato capace di fare misurandomi con l'incommensurabile abisso in cui ho provato a scendere". "Sarei soddisfatto - conclude, rispondendo ad una domanda sul possibile effetto e sulla possibile funzione del suo lungo lavoro investigativo - se il mio libro riuscisse ad aprire gli occhi almeno a una persona che vive nella convinzione che a Srebrenica non sia accaduto nulla di terribile, o a chi non sia consapevole della portata del male compiuto dall’Esercito della Repubblica Serba sui prigionieri, soldati e civili bosgnacchi di Srebrenica".