
Il film arriva nelle sale il 9 ottobre con Vision Distribution
(Cinematografo.it) "L'idea non è stata mia, ma di Riccardo Tozzi, dopo che Cattleya aveva acquistato i diritti. Mi ha parlato del libro di Michela Murgia, all’inizio pensavo che non sarebbe stato facile fare un film sulla malattia, su una donna che sapevamo sarebbe morta. Non ero convintissima, poi ho letto il libro e mi ha colpito moltissimo. Ho visto e sentito un rapporto molto differente da tutti i soliti punti di vista su una storia simile". In collegamento da New York, la regista spagnola Isabel Coixet ('Un Amor', 'La mia vita senza me', 'La vita segreta delle parole'), racconta l’antefatto che l’ha portata poi a dirigere 'Tre ciotole', film scritto insieme a Enrico Audenino (nelle sale italiane dal 9 ottobre con Vision Distribution, dopo la recente premiere mondiale al Festival di Toronto) e tratto dall’omonimo libro di Michela Murgia (l’ultimo prima della sua scomparsa), edito in Italia da Mondadori con oltre 200mila copie vendute. Nel cast del film anche Silvia D’amico, Galatea Bellugi, Francesco Carril e Sarita Choudhury.
Dopo quello che sembrava un banale litigio, Marta (Alba Rohrwacher) e Antonio (Elio Germano) si lasciano. Marta reagisce alla rottura chiudendosi in sé stessa. L’unico sintomo che non può ignorare è la sua improvvisa mancanza di appetito. Antonio, chef in rampa di lancio, si butta sul lavoro. Eppure, sebbene sia stato lui a lasciare Marta, non riesce a dimenticarla. Quando Marta scopre che la mancanza di appetito ha più a che fare con la propria salute che con il dolore della separazione, tutto cambia: il sapore del cibo, la musica, il desiderio, la certezza delle scelte fatte. La fine di un amore, la scoperta della malattia, la riscoperta della vita: "Abbiamo cercato di ritrovare Michela Murgia in questa storia, in questi personaggi, con grande rispetto", dice Alba Rohrwacher, che aggiunge: "Il lavoro fatto da Isabel con Enrico è stato un primo passo per mettersi sulle orme di Michela, per tentare di restituire quel mondo tramutato, ma fedele. Il sentimento con cui mi lasciava il lavoro di Michela è lo stesso che mi lascia questo film, credo perciò che il gioco alchemico tra il libro e il film sia riuscito".
Alchimia che sulla carta non era facile trovare, però: "In Cattleya c’erano due correnti, perché partire da una raccolta di racconti non era facile. Quindi abbiamo pensato che doveva essere una grande storia d’amore, e ci è venuto in mente il cinema di Isabel Coixet, l’abbiamo messa in contatto con Enrico Audenino per iniziare questo percorso", spiega il fondatore e presidente di Cattleya Riccardo Tozzi, che sul senso ultimo tanto del libro quanto del film, sintetizza: "È come se la morte desse forza alla vita". Il percorso è stato "semplice, naturale", racconta il co-sceneggiatore Audenino: "La difficoltà semmai è stata all’inizio. Trovarci di fronte a tutti questi racconti e fare un film a episodi non ci convinceva. La lettura del libro ci ha fatto scoprire dei collegamenti interni tra i vari racconti, come se parlassero tra di loro, costruendo un minor numero di personaggi. Il gioco è stato quello di prendere i vari elementi, creare un’associazione libera tra di loro, per far sì che si creasse un unico sentiero. Sentivamo che il tema centrale ruotasse intorno alla fine di un amore, al fatto che ci si possa non capire in un momento ma magari farlo in un altro contesto. Come pure il fatto che puoi fare incontri significativi con persone che poi magari non rivedrai mai più. Oltre alla riflessione fatta in corsa, venuta fuori con la scrittura: ci siamo resi conto che la malattia, in alcuni casi, da un lato ti mette di fronte alla fine, dall’altro lato ti mette di fronte alla libertà. E la libertà dà leggerezza, ci interessava esplorare questo aspetto".
Anche, in un certo senso, la libertà di affrancarsi dalle solite regole che ogni essere umano finisce per autoimporsi: "Penso che il film sia un po’ come il libro", dice Elio Germano: "Ovvero uno sguardo sugli esseri umani, con le loro tare ma senza volerle per forza risolvere. Abbiamo tutti la difficoltà di barcamenarci in una vita dove sembra che bisogna sempre dare dei numeri, o risposte effimere su argomenti che si allontanano sempre più da quelli relativi all’umanità. E quindi accade spesso che lutti, perdite o traumi ci riaprano gli occhi sull’assurdità della vita che stiamo facendo. E disperatamente andiamo in cerca di brandelli di umanità negli altri, personaggi che cercano di comunicare tra loro, di entrare in relazione intima. E questi due personaggi, Marta e Antonio, forse ci riescono nel momento del loro addio. C’è un rispetto del mistero, in cui siamo immersi, che era nella poetica di Michela, e che trovo restituita nel film".
È anche un film fortemente radicato nei luoghi abitati da Michela Murgia, 'Tre ciotole', con Trastevere a Roma che diventa personaggio aggiunto alla narrazione, dall’appartamento con vista su piazza Mastai al bar Cambio all’angolo tra via S. Francesco a Ripa e via Natale del Grande (dove Murgia trascorreva le giornate per scrivere il libro), passando per la gelateria di via Roma Libera fino alla fontana con il mosaico di Silvia Codignola di fronte al Chiostro di San Cosimato: "La cosa più importante per me erano i muri e i visi della gente, e anche la scelta del formato (in 4:3, con alcuni frammenti girati anche in Super8, ndr) è stata fatta per evitare di restituire un’immagine patinata, da cartolina, in fondo non è un film realista questo, piuttosto il riflesso dello stato d’animo della protagonista", dice ancora Isabel Coixet, che se dovesse scegliere una scena per sintetizzare quel "sto per morire ma sono ancora viva" opta per "il momento in cui Alba/Marta mangia il gelato" seduta proprio lì, a San Cosimato.
"Per me, da spettatore, il tema è che siamo tutti dispersi in cose a cui diamo troppa importanza", aggiunge Germano: "E questo produce una grossa conflittualità tra gli individui, la grossa bugia con cui veniamo allevati è che il primeggiare, il vincere, l’avere dei sottoposti è l’obiettivo che conduce alla felicità, quando invece è l’anticamera della solitudine, dell’infelicità. Perché poi per proteggere tutto questo costruisci cancelli, muri, ti armi. Poi però quando arriva la malattia, la morte, che in un certo senso sono le vere certezze della nostra vita, rimaniamo sorpresi, presi a schiaffi".