Molendini, fra musicisti e tipografi così nelle stanze del 'Messaggero' è passata la storia di Roma

In 'Sotto il sole di Roma' schegge di autobiografia di un giornalista, colonna della sezione Spettacoli, che racconta figure mitiche e storie nascoste di una città e del suo giornale

Molendini, fra musicisti e tipografi così nelle stanze del 'Messaggero' è passata la storia di Roma
11 ottobre 2025 | 11.52
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Al Messaggero poteva capitare di trovare in portineria un disperato Chet Baker bisognoso di soldi, ma anche di dover placare tipografi in rivolta perché il profumo di una redattrice della Roma 'bene' gli impediva di lavorare. E poi croniste scomparse per amore o giornalisti mandati a raccontare un omicidio di cui loro avrebbero dovuto essere le vittime.

Non si può capire Roma se non si conosce 'Il Messaggero'. E ovviamente è impossibile comprendere l'unicità del 'giornale della Capitale' se non si guarda al sottofondo che questo racconta, fatto di governo, poteri di ogni tipo, cultura, cinema e naturalmente il Vaticano. Una chiave per leggere entrambi arriva da Marco Molendini, che nel giornale di Via del Tritone 152 ha ricoperto molti incarichi, come si conviene a un cronista di razza, fino a quella di responsabile della sezione Spettacoli, che sotto la sua guida ha raccontato anni irripetibili, dall'euforia degli anni Ottanta all'alba di Internet.

Ma 'Sotto il sole di Roma', edito da Minimum Fax, è più di una autobiografia 'giornalistica': anzi, gli spunti personali - perloppiù legati al mondo dello spettacolo ma non solo - sono lo spunto per raccontare in controluce decenni come gli anni Settanta, con l'incubo del terrorismo e dei sequestri (nel suo primo giorno di cronaca Molendini è testimone della liberazione di Paul Getty jr), e poi l'ubriacatura edonista degli Ottanta, e la trasformazione dei Novanta, quando tutto diventa business, anche i rapporti umani.

Ma Molendini a quel punto ha fatto in tempo a stringere contatti unici e irripetibili, che riporta nel libro con una scrittura veloce e mai perfida. Come quando racconta del mitico Joao Gilberto, un perfezionista che ha paura di salire sul palco e - in parallelo - affida al cronista scarpe artigianali da cambiargli in via Borgognona perché troppo strette; oppure di quando fu fermato dalla polizia insospettita dai suoi compagni di viaggio, un certo Caetano Veloso e un certo Gilberto Gil. Ma anche di quando un Claudio Villa al tramonto irruppe da lui al Messaggero lamentando persecuzioni a Sanremo e ancora dei viaggi a New York con Renzo Arbore, appassionato di Louis Armstrong ma anche compratore complusivo di schifosi souvenir e mefitici ciccioli.

Raccontare di spettacolo e di musica non significa - non in questo libro - fare critica o esprimere giudizi, ma spiegare come film e concerti sono stati lo specchio dei tempi vissuti da Molendini, dagli scontri ai concerti dei Genesis ai 'processi' sul palco, come accadde a De Gregori, fino all'esplosione dello show business, dall'esperienza (anche personale) di Umbria Jazz fino al trionfo dell'ultimo spettacolo italiano di Frank Sinatra, che i Ferruzzi e Gardini - all'apogeo prima del crollo - vollero trasformare in una costosissima celebrazione personale.

Sui grandi che ha conosciuto Molendini non cede mai al pettegolezzo fine al se' stesso: la sua penna piuttosto si fa pungente quando racconta colleghi e direttori, senza trascurare gli editori, che nella storia del 'Messaggero' non sono mai figure 'esterne'. Si va dai Perrone, stravaganti personaggi d'altri tempi, a Raul Gardini, il 'contadino' che provò a conquistare la finanza, dai risanatori mandati da Cuccia fino a Caltagirone, bloccato all'ingresso il primo giorno da un portiere troppo zelante. In controluce c'è la trasformazione di una redazione che da anarchico covo di personaggi ingestibili (capaci di salutare il nuovo direttore con una memorabile pernacchia) si gonfia a dismisura negli anni Ottanta, per poi adattarsi ai nuovi tempi e alle nuove tecnologie. Che anche Molendini, a un certo punto, abbraccia, per collaborare a Dagospia di Roberto D'Agostino, precursore di un nuovo modo di fare giornalismo, che il giornalismo ha faticato a lungo a comprendere.

C'è una certa malinconia nelle ultime pagine del libro, con un Molendini rassegnato alla trasformazione del suo mondo (e alla scomparsa delle bruschette con le telline di Fregene), ma c'è tempo per farlo rivivere un'ultima volta, per raccontare le liturgie della tipografia, le bizzarrie di colleghi irraggiungibili nell'epoca pre-telefonino, le peculiarità di direttori a volte vittime della redazione che avrebbero dovuto guidare. Tutto passa, ma sotto il sole di Roma - sembra suggerire Molendini - tutto diventa storia e quindi diventa eterno.

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