L'autore de "Il nuovo Grande Gioco" racconta all'Adnkronos il suo viaggio da 15mila km tra democrazie e autocrazie. Dalla Cina revisionista al “Silicon Shield” di Taiwan, dall’Imec al ruolo dell’Italia tra difesa e connettività
Nel suo nuovo libro “Il nuovo Grande Gioco” (Solferino), l’ex sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti racconta un arco di 15.000 chilometri, dal Giappone all’Ucraina, dove si gioca la partita decisiva tra democrazie e autocrazie. Un viaggio tra guerre calde e fredde, dal Mar Cinese Meridionale all’Himalaya, dal Golfo Persico all’Europa dell’Est. Il libro sarà presentato alla libreria Mondadori della Galleria Alberto Sordi di Roma, venerdì 14 novembre alle 18, insieme a Nona Mikhelidze (Iai), Giovanna Reanda (Radio Radicale) e Benedetto Della Vedova (deputato).
Partiamo dall’Estremo Oriente: nel libro lei racconta un Giappone che non è più quello della Costituzione pacifista.
Ancor più delle guerre calde in corso – quella in Europa e quella in Medio Oriente – oggi è la Cina a produrre la maggiore instabilità globale. Le minacce di annessione di Taiwan, l’occupazione del Mar Cinese Meridionale, il riarmo che non ha precedenti hanno costretto il Giappone a rimettere tutto in discussione. A Tokyo si discute apertamente della revisione dell’articolo 9 della Costituzione, quella che per ottant’anni ha sancito il ripudio della guerra.
Lo si sente nelle strade, nei talk show, nei taxi: il Giappone non vuole più essere solo una potenza economica, ma una potenza capace di difendere la propria democrazia. Nel libro racconto come, nell’ultimo anno, il Paese abbia registrato il numero record di incursioni di navi e aerei cinesi e russi nei propri spazi aerei e marittimi. Oggi Tokyo considera “inevitabile” un aumento della spesa militare fino al 2% del PIL. Un cambio culturale epocale per la nazione più pacifista del pianeta.
Cina, Russia, Iran, Corea del Nord: le chiama “le quattro autocrazie convergenti”.
Sì, perché la Cina non è solo una potenza economica, ma una potenza revisionista. Vuole riscrivere la storia e ridefinire i confini del mondo. È Pechino oggi a tenere in vita due regimi altrimenti prossimi al collasso: la Russia e l’Iran. Senza la Cina, l’Iran, che esporta il suo petrolio e riceve beni da Pechino, sarebbe già vicino a un cambio di regime.
Nella parata del 2 settembre scorso, Xi Jinping ha sfilato con Putin alla sua destra e Kim Jong-un alla sinistra: un’immagine plastica del nuovo asse autoritario. È una convergenza post-ideologica: non hanno valori comuni, ma un obiettivo condiviso, la sopravvivenza dei propri sistemi.
Nel libro documento come la cooperazione economica sino-russa sia esplosa: Pechino ha fornito a Mosca semiconduttori, veicoli blindati e droni dual-use, in cambio di energia a prezzi di favore. E nel frattempo sostiene la propaganda anti-occidentale in Medio Oriente, alimentando la disinformazione anti-israeliana sui social e nei media internazionali.
Perché Taiwan è così centrale nel suo racconto?
Perché è il cuore tecnologico e simbolico del pianeta. Taiwan produce oltre il 90% dei semiconduttori avanzati al mondo: se finisse sotto il controllo di Pechino, la filiera tecnologica globale collasserebbe. Ma Taiwan è anche la prova vivente che democrazia e sviluppo sono compatibili.
Era una dittatura militare violenta e oggi è una delle democrazie più dinamiche e pluraliste d’Asia. A Taipei c’è un Museo dei diritti umani che sorge in una ex prigione dove, durante la legge marziale, venivano torturati giornalisti e intellettuali. Eppure da quella storia Taiwan è uscita costruendo una società moderna, tecnologica, con un altissimo tasso di alfabetizzazione digitale.
Ogni giorno subisce centinaia di migliaia di attacchi informatici, campagne di disinformazione, operazioni ibride. È un laboratorio della guerra del futuro, dove la difesa nazionale passa per la cybersicurezza e per la resilienza delle infrastrutture.
Dedica molte pagine all’India, che definisce “la chiave di volta del nuovo equilibrio globale”.
L’India è il Paese più interessante e strategico del secolo. È la più grande democrazia del mondo, la quarta economia del pianeta e un Paese che, in pochi decenni, ha portato fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone. Ma è anche la frontiera più tesa con la Cina.
Ho attraversato lo Stato dell’Arunachal Pradesh, che Pechino rivendica come proprio. Oggi l’India sta costruendo una nuova “frontier highway” di 2.000 chilometri lungo la catena himalayana, un’opera infrastrutturale e militare senza precedenti.
Sull’altro lato, la Cina ha militarizzato i valichi, costruito nuove piste d’atterraggio, dispiegato artiglieria pesante. In questo contesto, Nuova Delhi resta autonoma ma sempre più vicina all’Occidente. Ha firmato accordi di difesa con la Francia, partecipa al Quad con Stati Uniti, Giappone e Australia, e rafforza ogni anno le esercitazioni con le democrazie dell’Indo-Pacifico. L’India è il perno di questo nuovo Grande Gioco: se si schiererà stabilmente con le democrazie, la bilancia globale potrà ancora restare in equilibrio.
Come si muove l’Italia in questo scenario? E cosa dovrebbe fare?
L’Italia è molto apprezzata, soprattutto in Asia, per la partecipazione al programma Gcap con Giappone e Regno Unito: lo sviluppo del caccia di sesta generazione è visto come un segnale di autonomia tecnologica e industriale. Ma serve una visione strategica più ampia. Non possiamo restare un Paese osservatore. Nel libro parlo di due dimensioni chiave per il futuro europeo: deterrenza e connettività. La deterrenza significa aumentare le capacità di difesa e partecipare a un’alleanza più coesa tra le democrazie. La connettività, invece, significa aderire e investire in progetti come l’Imec, il nuovo corridoio India–Medio Oriente–Europa.
Ci spiega meglio cosa rappresenta l’Imec e perché lo considera l’alternativa democratica alla Via della Seta?
L’Imec collega India, Paesi del Golfo, Israele e Mediterraneo, con sbocchi verso Trieste e il Pireo. È un progetto che unisce democrazie e monarchie riformiste in una rete logistica capace di aggirare i colli di bottiglia del commercio mondiale: Hormuz, Bab el-Mandeb, Suez. Il libro riporta un dato impressionante: tra Hormuz, Bab el-Mandeb e Suez transita oltre il 60% del commercio globale. Controllare o diversificare queste rotte significa garantirsi stabilità e sicurezza energetica.
L’Imec è anche il frutto del dialogo tra India, Stati Uniti, Israele e Paesi arabi, quello che chiamo “asse delle democrazie emergenti”. Ma per decollare ha bisogno di un tassello mancante: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita.
In Italia c’è un vuoto di consapevolezza sul tema della sicurezza?
Siamo rimasti gli unici, insieme forse ai giapponesi di vent’anni fa, a pensare che parlare di difesa significhi invocare la guerra. Invece la difesa è il presupposto della pace. Paesi come Svezia, Finlandia o Danimarca hanno capito che la sicurezza collettiva è parte della vita democratica. Noi no: siamo ancora prigionieri di un pacifismo emotivo e di una disinformazione che arriva da Mosca e da Pechino.
L’opinione pubblica italiana – e una parte della sinistra, purtroppo – ha difficoltà a riconoscere la natura del pericolo. È più facile simpatizzare con la Russia o con la Cina perché vendono gas, auto o telefonini a basso prezzo, piuttosto che comprendere che lì si gioca la partita dei nostri valori. L’Ucraina, però, ha cambiato qualcosa. Gli italiani stanno capendo che la guerra in Europa non è un’ipotesi, è una realtà. E che la libertà si difende anche con le armi e con le alleanze giuste.
Il Tibet, il Dalai Lama, non sono "battaglie" del secolo scorso? Perché le ritiene ancora cruciali?
Perché anche quella è una frontiera della libertà. Ho conosciuto personalmente il Dalai Lama, che ho incontrato più di venti volte. E’ una figura che continua a incarnare la resistenza spirituale al totalitarismo. Nel libro racconto come il Tibet sia diventato un laboratorio di repressione tecnologica: sorveglianza biometrica, riconoscimento facciale, campi di “rieducazione” per i monaci. È un’anticipazione di ciò che il Partito comunista cinese sogna di estendere a tutto il Paese. E raccontare queste storie – dall’Himalaya all’Ucraina – significa ricordare che la partita non è solo geopolitica: è anche morale.
“Il nuovo Grande Gioco” vuole essere anche un reportage sulla libertà?
Ho percorso 15.000 chilometri, dal Giappone all’Ucraina, per incontrare politici, soldati, attivisti, diplomatici, monaci e dissidenti. Ne emerge una certezza: il nuovo Grande Gioco è già cominciato. E se l’Europa, e l’Italia con lei, non capiranno da che parte stare, rischiamo di trovarci di nuovo dalla parte sbagliata della storia. (di Giorgio Rutelli)