
Presentato a Venezia82 il nuovo documentario di Roland Sejko sul regime di Enver Hoxha
Che cosa resta di una dittatura quando a parlare sono le sue stesse immagini? È la domanda che attraversa "Film di Stato", il nuovo documentario di Roland Sejko, presentato oggi alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, in anteprima mondiale alle Notti Veneziane, sezione speciale delle Giornate degli Autori in collaborazione con Isola Edipo.
Dopo il premiato "Anija - La nave", Sejko torna a scavare nella memoria visiva dell'Albania comunista, costruendo – con materiali d'archivio – un'opera sorprendente, disturbante e poetica. Cinegiornali, filmati ufficiali, riprese segrete e propaganda: tutto ciò che il regime di Enver Hoxha ha prodotto per costruire il proprio mito viene qui rimontato con precisione chirurgica, trasformandosi da strumento di consenso a prova involontaria della propria ipocrisia.
Nessuna voce narrante, nessun esperto: a parlare sono solo le immagini. Parate interminabili, bambini sorridenti, folle adoranti e leader onnipresenti mostrano l’estetica perfetta della propaganda. Ma proprio in quella perfezione iniziano ad apparire le crepe. Il montaggio di Sejko lascia emergere ciò che allora restava invisibile: gli sguardi sfuggenti, i gesti rigidi, le attese silenziose. La macchina del consenso inizia così a svelare le sue contraddizioni più profonde.
"Il film è fatto solo di immagini esistenti – spiega il regista – ma cerca, con montaggio, suono e ritmo, di costruire un racconto diverso da quello che quelle immagini volevano imporre".
Prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, "Film di Stato" non racconta solo l'Albania di Hoxha: è un atto di riflessione universale sul potere, sulla sua estetica e sulla sua pericolosa capacità di autorappresentarsi. Un esempio di cinema che seziona il passato per rivelare il presente, mostrando come – a volte – basti guardare le immagini nel modo giusto per smascherare le bugie del potere.
"Ho trascorso mesi, insieme ai colleghi dell’Archivio del Film d'Albania (Aqshf), a ricercare e digitalizzare ore di pellicole: non solo i montaggi ufficiali, ma soprattutto i cosiddetti 'repertori', i girati grezzi che non erano mai stati proiettati - racconta Sejko - Accanto al grande archivio ufficiale ho lavorato anche sui materiali più intimi: l’archivio privato di Hoxha, filmati girati per lui dalla sua guardia del corpo. Da questi due mondi - la propaganda destinata alle masse e le immagini riservate al dittatore – nasce una mappa visiva di un potere, attraversata dalla presenza insistente di Hoxha stesso che cammina solitario o la sua Mercedes che avanza nelle città o nei paesaggi rurali. L’auto diventa un emblema: il potere che scivola silenzioso e onnipresente, un oggetto che porta con sé la sua figura anche quando non la vediamo".
Il film, spiega il regista albanese, "un viaggio cronologico che procede senza voce narrante, senza spiegazioni esterne. La decisione di lasciare che fossero unicamente le immagini a parlare è stata insieme un atto di rottura consapevole e la conseguenza inevitabile del confronto con il materiale. Nei film ufficiali di regime – fossero cinegiornali, documentari o riprese celebrative – la voce narrante non svolgeva un ruolo descrittivo, ma normativo: non raccontava ciò che accadeva, bensì prescriveva cosa pensare. Sostituirla con un’altra voce, anche critica, avrebbe significato riprodurre lo stesso meccanismo.
"Per questo ho scelto di sottrarre non soltanto la voce, ma l’intero apparato sonoro originale, parte integrante del dispositivo propagandistico, e di ricostruire una dimensione acustica nuova, realistica, come se quelle immagini fossero state girate in presa diretta. Passi, brusii, scricchiolii, silenzi: un tessuto sonoro fragile e concreto, capace di restituire alle immagini la loro fisicità - continua Sejko - Questo lavoro ha permesso di aprire uno spazio critico inedito: lo spettatore viene invitato a percepire la tensione, la forzatura. Il suono diventa così un vero e proprio strumento di narrazione. E forse di partecipazione. Questo mi fa pensare che forse questa spinta viene anche da lontano, quando da adolescente quelle immagini le ho abitate: avevo diciassette anni quando morì Enver Hoxha. Le immagini ufficiali parlavano di un Paese felice e compatto, ma la realtà era quella di un Paese povero, isolato, arretrato. Già allora sentivo la distanza tra propaganda e vita quotidiana, e forse da lì è cominciato il bisogno di guardare oltre la superficie, di cercare negli interstizi delle immagini ciò che non volevano mostrare".
Non è un film che vuole spiegare, né concludere. È un film che vuole aprire domande. Perché ogni regime, autoritario o democratico, produce il proprio "film di Stato", costruisce consenso e plasma la realtà attraverso le immagini. Interrogarle, smontarle, ascoltarle di nuovo significa restituire allo spettatore la possibilità di guardare criticamente. In questo senso "Film di Stato" prosegue un percorso già avviato con "La macchina delle immagini di Alfredo C.". Lì il punto di vista era quello di un singolo operatore che si confrontava con il potere; qui è l’intero apparato del regime che si mette in scena, e che finisce per tradirsi da solo. Con questa nuova opera, Sejko si conferma uno degli autori più lucidi e incisivi nel raccontare il non detto della Storia. Un cinema che non spiega, ma mostra. E lascia che sia lo spettatore a comprendere – o a dubitare. (di Paolo Martini)