
"Sangre del Toro" nella sezione Venezia Classici della 82esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
Nella sezione Venezia Classici della 82esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, tra archivi che prendono vita e memoria che si fa visione, arriva "Sangre del Toro", il nuovo, vibrante documentario di Yves Montmayeur, regista già premiato nel 2015 con "The 1000 Eyes of Dr Maddin". A distanza di un decennio, Montmayeur torna con un'opera che è insieme dichiarazione d'amore e viaggio iniziatico nel mondo di uno dei più visionari registi viventi: Guillermo del Toro.
Presentato (venerdì 29 augusto alle ore 17 nella Sala Corinto) alla vigilia della proiezione veneziana di "Frankenstein", il nuovo attesissimo film in Concorso del maestro messicano, "Sangre del Toro" è molto più di un semplice biopic. È una mappa onirica del suo universo creativo, un percorso intimo tra città, miti, mostri e sogni che disegna il ritratto stratificato di un artista che ha saputo fare del cinema una forma di poesia gotica e politica, spirituale e pop.
Lo spettatore viene invitato a entrare in un vero e proprio labirinto psichico ed estetico: non ci sono solo le tappe della carriera – dall’esordio con "Cronos" fino al Leone d'oro nel 2017 con "The Shape of Water" - ma anche scorci segreti della sua anima. Dai sotterranei di Hollywood ai quartieri vibranti di Guadalajara, passando per Parigi, Montmayeur segue del Toro come un Virgilio contemporaneo, svelando stanze e reliquie che compongono la sua personale "casa dei mostri".
Nella mostra allestita a Guadalajara, che è il cuore pulsante del film, il sacro e il profano si fondono in un caleidoscopio visionario: crocifissi accanto a Boris Karloff, fumetti e anatomie, macchine del cinema e reliquie liturgiche. In questo spazio surreale e denso di significati, il documentario trova la sua forma più pura: un'esplorazione dell'immaginario come specchio dell'identità.
"Sono un cittadino del mondo", ama ripetere del Toro. Ma in realtà, suggerisce Montmayeur, è un moderno Minotauro: metà uomo, metà mito, abitante di un labirinto di simboli in cui convivono Méliès e Lovecraft, Mary Shelley e il realismo magico. La sua messicanità non è mai caricatura esotica, ma lingua madre che dialoga con le sue patrie artistiche adottive, Hollywood, l'Europa, i sogni.
Il documentario ha ritmo, energia e un'ironia affettuosa. Le testimonianze di collaboratori storici, come lo scenografo Eugenio Caballero, si intrecciano con interviste rare e materiali d’archivio, dando corpo a un ritratto tridimensionale. Non c'è celebrazione sterile, ma una sincera riflessione sull'artigianato, la spiritualità e la lotta costante per difendere la libertà dell'immaginazione in un mondo che la svuota o la ridicolizza.
"Sangre del Toro" si inserisce perfettamente nel tessuto della Mostra di Venezia, non solo per la presenza del suo protagonista con "Frankenstein", ma anche come ideale dialogo con un altro documentario presentato nella stessa sezione, "Memoria de los olvidados" di Javier Espada, dedicato al Luis Buñuel de "I figli del diavolo". Due registi molto diversi, ma accomunati da un’idea profonda di cinema come atto sovversivo e liberatorio.
Alla fine della visione, ciò che resta è una commozione silenziosa e vivida: Montmayeur ci consegna non solo il ritratto di un grande cineasta, ma l’affresco di un pensiero artistico che non ha mai avuto paura dei mostri - anzi, li ha sempre abbracciati come parti vitali della nostra umanità. "Il cinema di del Toro non ci mostra solo cosa temiamo, ma cosa siamo disposti ad amare pur nella paura. 'Sangre del Toro' è il suo specchio: imperfetto, barocco, immenso".
(di Paolo Martini)