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Borsellino, autista sopravvissuto: "Io vivo per miracolo, in via D'Amelio trovo la mia pace"

14 luglio 2023 | 18.23
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Antonio Vullo: "Impossibile dimenticare, il 19 luglio per me è ogni giorno. La verità sulla strage? Dubito ci si possa arrivare, ma fronte antimafia non si spacchi"

Antonio Vullo, sopravvissuto strage via D'Amelio
Antonio Vullo, sopravvissuto strage via D'Amelio

Vivo per miracolo. Antonio Vullo, l'unico agente di scorta di Paolo Borsellino sopravvissuto alla strage di via D'Amelio, lo dice con un filo di voce. "Non so ancora perché sia toccato a me, ma è stato un miracolo, non una fortuna come molti mi ripetono. Perché vivere ogni giorno con questo peso non è affatto una fortuna". Per molto tempo, e "ancora oggi" l'essere rimasto in vita lo ha vissuto come una colpa. "Essere l'unico sopravvissuto a quell'inferno di fuoco mi ha danneggiato sia fisicamente sia mentalmente. L'ho sentito e lo sento ancora come una grande colpa, anche se razionalmente so che non è così, che io ho fatto solo il mio dovere", dice all'Adnkronos.

A distanza di 31 anni dall'eccidio costato la vita ai suoi colleghi Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi e Vincenzo Li Muli, e al giudice Borsellino il dolore resta. "Perché il 19 luglio per me è ogni giorno, perché ovunque io sia e qualunque cosa faccia ci sarà sempre qualcosa che mi riporterà a quell'istante". All'inferno di fuoco e sangue, a "quell'odore di bruciato che ancora adesso ancora sento come fosse ieri". Da quel giorno Vullo ha smesso di fumare. "Fumavo otto-dieci sigarette al giorno, l'ho fatto per dieci anni. Da quella domenica di 31 anni fa il fumo lo detesto. Quello che ho respirato in quei minuti in via D'Amelio me lo sono portato dentro". E poi il suono degli allarmi delle auto scattati nel momento in cui il tritolo di Cosa nostra ha cambiato per sempre la sua vita. "Avevano un suono particolare, adesso è difficile sentirlo, ma quando mi capita quel suono mi fa andare in tilt. Da quella maledetta domenica il mio modo di esistere è stato stravolto".

A distanza di 31 anni quella che resta è anche l'amarezza. Per la "mancata verità" sulle stragi. "Dietro quella carneficina non c'è solo la mafia. Credo che una trattativa tra pezzi deviati dello Stato e la mafia ci sia stata, ma le sentenze vanno accettate, anche se a malincuore. La storia del nostro Paese è constellata di tante mancate verità, da Emanuela Orlando ad Aldo Moro, da Attilio Manca e al piccolo Claudio Domino. Spero ancora che si possa arrivare a scoprire tutta la verità su via D'Amelio ma la vedo dura perché in t anti ancora non hanno la volontà di oltrepassare il limite, di arrivare a scoprire i tasselli mancanti". E le spaccature nel fronte dell'antimafia? "Mi amareggiano e mi feriscono, perché allontanano quella verità. Dobbiamo restare uniti perché c'è qualcuno che fa di tutto per non arrivare a quella verità". 

In via D'Amelio lui torna spesso. "E' il luogo in cui trovo pace. Ogni volta che, magari leggendo la cronaca sui giornali, la rabbia mi assale vado là, davanti quell'ulivo. Mi fermo qualche minuto, da solo, e ritrovo la mia serenità". Ci è stato anche ieri. Per fare memoria. "Ci sarò anche il 19 luglio - assicura -. Cerco di dare il mio contributo, anche se rivivere quei momenti è difficile e pesante. Lo faccio con il cuore, perché i giovani sappiano cosa è successo in via D'Amelio dalla voce di chi ha vissuto quell'orrore". E così a chi gli chiede Vullo racconta dell'inferno di fuoco e sangue, di quella domenica pomeriggio in cui "per la prima volta andavamo in via D'Amelio" perché "non c'eravamo mai stati, ci saremmo mossi diversamente se avessimo conosciuto la strada", della macchina "parcheggiata di traverso per non fare passare nessuno" e dell'onda d'urto, dopo l'esplosione, che lo ha investito. "Quando i giudice e i miei colleghi sono entrati nel cortile del palazzo - dice con la voce rotta dall'emozione -, ho pensato di spostare l'auto perché fosse pronta a ripartire. In quell'istante è successo tutto. La vettura si è sollevata, sospinta per qualche metro, e dentro l'abitacolo ho sentito una pressione fortissima. Quando sono sceso ho capito cosa era successo. C'era il piede mozzato di un collega, Claudio Traina, e poco distante altri brandelli di carne". Poi la corsa in ospedale. "Lì ho capito che i ragazzi non c'erano più", dice con un filo di voce. 

Alla scorta del giudice Borsellino lui era arrivato il 31 maggio. "C'era molta paura, tutti sapevano che dopo Falcone lui era a rischio. Vincenzo Li Muli lo conoscevo da tre anni, con Claudio (Traina, ndr), invece abbiamo subito legato, ancora oggi il mio pensiero va spesso a lui". Prima di Borsellino aveva fatto la vigilanza sotto l'abitazione di Falcone. "Lui era sempre sorridente, gioioso. Borsellino, invece, aveva l'apparenza di una persona dura, un po' burbera. Lo avevo visto sempre molto serio. Quando un collega delle scorte me lo presentò ero timoroso. Persino a dargli la mano. Invece, lui si avvicinò e mi allungò la mano. 'Sei sposato? Hai bimbi?' mi chiese. Da quella stretta di mano ho capito che tipo di persona era: non un magistrato distaccato come tanti altri, ma un amico, una persona di famiglia".

"Questo suo modo di fare allentava la paura, anche se tutti conoscevamo a cosa andavamo incontro. Lo abbiamo fatto con tanta dedizione e amore perché sapevamo che stavamo dalla parte giusta dello Stato. Dopo Falcone non sarebbe dovuto succedere. E' una delle più grandi vergogne della storia della nostra Repubblica".  (di Rossana Lo Castro)

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