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Utero in affitto in Ucraina, caos sentenze in Italia: c'è chi assolve e chi condanna

26 febbraio 2014 | 11.16
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Utero in affitto in Ucraina, caos sentenze in Italia: c'è chi assolve e chi condanna

Milano, 26 feb. (Adnkronos Salute) - Avevano pensato a tutto: la casa da ristrutturare, la cameretta nuova per accogliere il bebè tanto desiderato, il copione da recitare davanti ai vicini, con tanto di finto pancione in gommapiuma per simulare la dolce attesa. Un segreto fra marito e moglie, una coppia milanese: nessuno avrebbe dovuto sapere che il loro bimbo era frutto di una maternità surrogata, non consentita in Italia. Cresciuto in un utero in affitto, quello di una giovane donna ucraina. Un sogno pagato caro: non solo per i 30mila euro spesi fra rimborso per la mamma surrogata e compenso per la clinica. Ma anche per l'odissea in tribunale, con l'accusa - scattata dopo la segnalazione dell'ambasciata italiana a Kiev - di aver alterato lo stato civile del neonato mediante false attestazioni. Un'odissea a lieto fine, visto che il tribunale di Milano ha escluso che possa configurarsi il reato di alterazione di stato civile. Quella pronunciata dal tribunale del capoluogo lombardo non è l'unica sentenza di assoluzione. A giugno 2013, infatti, lo stesso epilogo è arrivato anche per una coppia di genitori triestini tornati in Italia dall'Ucraina con 2 gemelli. Anche il tribunale friulano ha concluso che non c'è stato falso.

Non un esito scontato, visto che la giurisprudenza su questo tema è incerta e, ad esempio, per una coppia di Iseo (Brescia) il finale è stato ben più amaro: condannati a 5 anni e un mese per la stessa accusa, alterazione di stato civile.

In Italia è caos sentenze: non sono poche le coppie che affrontano viaggi all'estero per avere accesso alla fecondazione eterologa. E al rientro, si trovano a fare i conti con la giustizia: alcuni tribunali scelgono di non procedere, altri vanno avanti e c'è chi assolve e chi condanna. Nel caso milanese, come negli altri, il neonato è stato dichiarato figlio della donna per conto della quale è stata portata avanti la gravidanza - invece che figlio della partoriente o della donatrice dell'ovulo fecondato - ma l'atto di nascita, precisa il giudice, è stato formato validamente nel rispetto della legge del Paese dove il bimbo è nato, l'Ucraina. Anzi, nella sentenza depositata il 13 gennaio 2014 si precisa anche che l'attribuzione dello status di madre alla donna italiana era "necessaria e indefettibile" secondo la legge del luogo. "Gli imputati non avrebbero potuto rendere una dichiarazione di diverso tenore all'ufficiale di stato civile di Kiev, né questo avrebbe potuto agire contra legem e riferire la maternità alla donatrice di gameti o alla donna che aveva portato a termine la gravidanza".

A.C. ed S.B., dopo il fallimento di alcuni tentativi di fecondazione assistita in Italia e la malattia di lei, si erano rivolti nel 2010 a una clinica privata ucraina, la Biotexcom di Kiev, meta anche di altre coppie finite poi sul banco degli imputati e molto attiva su Internet con pubblicità e sito in italiano per promuoversi nel Belpaese. Per esempio si sono rivolti alla struttura moglie e marito di Crema. Ma per loro la vicenda giudiziaria è ancora aperta e complicata dal fatto che il test del Dna non ha confermato neanche la paternità biologica.

Per la coppia milanese, dopo la firma del contratto con la clinica ucraina, comincia un percorso standard: gli aspiranti genitori che incontrano la madre surrogata, scelta da un elenco di donne, volontarie di età compresa fra 20 e 32 anni, con alle spalle già una gravidanza propria e senza controindicazioni mediche a portarne a termine un'altra. I genitori incontrano più volte la donna e seguono l'evoluzione della gravidanza, assistendo alla prima ecografia, poi tornano nuovamente a Kiev al momento del parto. Nasce il bebè ed "S.B., ricoverata insieme alla donna che ha partorito il piccolo, si occupa di lui sin dal primo istante di vita. Parallelamente la madre surrogata attesta in forma notarile l'inesistenza di qualsiasi relazione genetica con il bambino e presta il consenso all'indicazione dei coniugi italiani quali genitori". Tutto come previsto dalla legge ucraina. L'atto di nascita viene formato dall'ufficiale di stato civile di Kiev e poi tradotto in lingua italiana e apostillato - cioè munito di un'annotazione che ne attesta sul piano internazionale l'autenticità - ma il meccanismo si inceppa nel passaggio all'ambasciata italiana.

I genitori tentano di convincere il funzionario consolare che il bimbo è frutto di una gravidanza naturale della donna, negando la maternità surrogata. Una versione che non viene ritenuta credibile. Scatta, insieme alla trasmissione dell'atto di nascita al Comune di Milano, la segnalazione alla procura. Nel frattempo l'ufficiale di stato civile della metropoli lombarda, pur informato della probabile maternità surrogata, decide di registrare l'atto. Secondo il tribunale milanese, conserva rilevanza penale solo il fatto che i neo genitori hanno simulato nei confronti dell'autorità consolare una gravidanza naturale, perché le false dichiarazioni sono state rilasciate a un pubblico ufficiale e nell'ambito di un procedimento destinato a riverberarsi in un atto pubblico. Ma trattandosi di un reato comune commesso all'estero, punito con la pena minima inferiore ai tre anni, e mancando la condizione di procedibilità della richiesta del ministro della Giustizia, l'azione è improcedibile. Il giudice ricorda che altre autorità giudiziarie - di Bologna, Catania, Venezia, Salerno, Pordenone e Caltagirone - in situazioni analoghe hanno definito il procedimento con un'archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere.

La procura di Milano è andata avanti e con una consulenza tecnica genetico forense ha dimostrato che il profilo genetico del piccolo è incompatibile con quello della mamma italiana mentre è confermata la paternità biologica dell'uomo. La sentenza di Milano è stata pubblicata anche sul sito 'Diritto penale contemporaneo', in cui si fa notare che la pronuncia si spinge in qualche modo a "negare che la trascrizione dell'atto di nascita da parte dell'ufficiale di stato civile italiano sia stata contraria all'ordine pubblico, internazionale o interno". E che questa conclusione va analizzata non solo alla luce "degli ovvi rischi, in tal modo creati, di aggiramento dell'inequivoco divieto di maternità surrogata espresso nella legge 40, ma anche più in generale sotto il profilo della compatibilità di una tale soluzione ermeneutica con i principi in materia di stato civile e di diritto di famiglia vigenti nell'ordinamento italiano".

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