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Esperti di terrorismo americani e britannici: "Tentiamo il dialogo con l'Is"

07 ottobre 2014 | 15.21
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Il giornalista Usa Rohde, sequestrato dai talebani in Afghanistan nel novembre 2008 e sfuggito alla prigionia nel giugno dell'anno successivo: "L'approccio casuale sta fallendo". Gli fa eco Powell, ex capo dello staff di Tony Blair: "Tutti i Paesi dicono che non parleranno mai con i gruppi terroristi, eppure quasi sempre finiscono per farlo"

(Infophoto)
(Infophoto)

Dopo la polemica innescata nei mesi scorsi da un'inchiesta del 'New York Times', che accusava i governi europei (con l'esclusione di quello britannico) di trattare con i gruppi terroristici e pagare dei riscatti per il rilascio dei propri connazionali rapiti, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si riapre il dibattito sull'opportunità di avviare una qualche forma di dialogo con lo Stato Islamico.

A innescarlo le recenti uccisioni degli ostaggi americani e britannici e le minacce da parte dell'Is di fare nuove esecuzioni.

Tra i primi a intervenire, nelle scorse settimane, il giornalista statunitense David Rohde, sequestrato dai talebani in Afghanistan nel novembre 2008 e fortunatamente sfuggito alla prigionia nel giugno dell'anno successivo. Dopo la diffusione del video che mostrava la decapitazione di James Foley , il giornalista Usa rapito in Siria dall'Is, Rohde parlò di una "raggelante sveglia per i responsabili politici americani e europei".

Per Rohde, una delle "chiare lezioni" emerse negli ultimi anni è che le minacce alla sicurezza vengono affrontate in maniera più efficace quando europei e americani agiscono unitariamente. Per affrontare il dramma dei rapimenti, "c'è il disperato bisogno di una risposta coerente da parte americana e europea", perché "l'approccio casuale" finora adottato "sta fallendo". In breve, anche gli Stati Uniti dovrebbero "iniziare a negoziare con i terroristi".

Dall'altra sponda dell'Atlantico, all'approccio di Rohde fa eco quello di Jonathan Powell, ex capo dello staff di Tony Blair e tra 1997 e 2007 capo negoziatore britannico per l'Irlanda del Nord.

Nel suo libro 'Talking to terrorists, how to end armed conflicts' (Dialogare con terroristi, come porre fine ai conflitti armati), Powell ripercorre la propria esperienza di negoziatore con l'Ira, traendo lezioni che a suo giudizio sono applicabili anche in altri contesti geografici e politici, non ultimo quello mediorientale, dove la minaccia dell'Is sta emergendo con sempre maggiore drammaticità.

La storia, scrive Powell, in particolare quella dell'Impero britannico, ci insegna che "i governi di tutti i colori politici e in tutti i Paesi affermano ripetutamente che non parleranno mai con i gruppi terroristi, eppure quasi sempre finiscono per farlo e alla fine di solito trattano i loro leader come degli statisti".

Powell oggi dirige la ong Inter-Mediate, che si occupa di mediazione dei conflitti armati. "Quando nel 2007 lasciai Downing Street - ricorda - proposi pubblicamente che avremmo dovuto dialogare con i talebani, con Hamas e perfino con al-Qaida". Ne seguì un'ondata di polemiche. "Solo pochi anni dopo - sottolinea - i Paesi della Nato stanno ora trattando con talebani e gli Stati Uniti e Israele hanno parlato con Hamas, almeno indirettamente".

"Ad un certo punto - afferma - dovremo negoziare con l'estremismo islamico più violento, sia esso in questa forma o in un'altra, se le loro idee continueranno ad avere sostegno politico e se vogliamo trovare una soluzione duratura al conflitto in atto nella regione", perché "è improbabile che essi semplicemente svaniscano".

L'importante è "tenere a mente che questi negoziati di solito all'inizio non hanno successo" e che "un accordo viene raggiunto solamente quando si verifica una fase di stallo, nella quale entrambe le parti capiscono che non potranno prevalere militarmente".

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