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Busta e gas, così si è tolto la vita Marco Prato

Marco Prato (Foto Fotogramma) - FOTOGRAMMA
Marco Prato (Foto Fotogramma) - FOTOGRAMMA
20 giugno 2017 | 12.24
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E' morto all’interno della sua cella stringendosi un sacchetto della spazzatura nella testa e inalando il gas della bomboletta che legittimamente i detenuti posseggono per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande". Così Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, e Maurizio Somma, segretario nazionale Sappe per il Lazio, sul suicidio in carcere di Marco Prato, accusato dell'omicidio di Luca Varani.

"Il fatto che sia morto proprio inalando il gas dalla bomboletta che tutti i reclusi legittimamente detengono per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande, come prevede il regolamento penitenziario - aggiungono -, deve fare seriamente riflettere sulle modalità di utilizzo e di possesso di questi oggetti nelle celle".

"Ogni detenuto può disporre di queste bombolette di gas, che però spesso servono o come oggetto atto ad offendere contro i poliziotti, come ‘sballo’ inalandone il gas o come veicolo suicidario - continuano - Già da tempo, come primo sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe ha sollecitato i vertici del Dap per rivedere il regolamento penitenziario, al fine di organizzare diversamente l’uso e il possesso delle bombolette di gas. Ma nulla è stato finora fatto”.

“Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità”, aggiungono i due sindacalisti. “Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze - continuano - La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere".

"Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi ed impedito che quasi 168mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze", sottolineano. "Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di Polizia Penitenziaria e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati - concludono - E’ proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”.

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