
La scrittrice italo-palestinese dà voce alla memoria
"In un mondo che si definisce dei diritti umani ma continua a voltarsi dall'altra parte di fronte a una tragedia che si consuma sotto gli occhi di tutti", Alae Al Said sceglie la letteratura come strumento di resistenza, testimonianza e memoria. Con il suo romanzo "Il ragazzo con la kefiah arancione" (Ponte alle Grazie), presentato al festival Pordenonelegge, la scrittrice italo-palestinese porta in primo piano la storia di "un popolo che troppo spesso è stato raccontato da altri".
Nata a Roma nel 1991 da genitori palestinesi, Al Said è cittadina italiana. Eppure, la sua identità è sempre stata messa in discussione, come racconta lei stessa all'Adnkronos: "A scuola, quando dicevo che ero palestinese, mi sentivo rispondere: ah, pakistana? Come se la Palestina non esistesse. E se poi qualcuno ne aveva sentito parlare, arrivavano le domande scomode: ma voi non la volete la pace con gli israeliani? Avevo dieci anni, e già dovevo rispondere di politica".
Da bambina, scriveva poesie. Crescendo, Alae Al Said ha trovato nel romanzo la forma per raccontare "un dolore collettivo": quello di "una patria spezzata, di un popolo sotto occupazione, e di un'identità" che si trasmette attraverso ciò che lei definisce "memoria collettiva". Una memoria che le appartiene, anche se non ha vissuto direttamente l'esodo del 1948 o la guerra del 1967: "Le ferite del mio popolo le sento dentro di me. Come ogni italiano porta dentro di sé il 25 aprile, Festa della Liberazione, così noi sentiamo l'esodo come parte della nostra identità".
Nel romanzo, ambientato tra gli anni '60 e '90 del secolo scorso, nella Cisgiordania occupata, la storia di Loai - ragazzo dai capelli rossi e dallo spirito mite - diventa emblema di un'intera generazione. Dai banchi di scuola alla guerra dei Sei Giorni, passando per l'amicizia con Ahmad, forte e indomito, "Il ragazzo con la kefiah arancione" è il racconto di un riscatto personale intrecciato alla resistenza collettiva di un popolo sotto assedio.
Ma perché scrivere ora questo romanzo? "Perché oggi abbiamo davanti agli occhi, in tempo reale e in alta definizione, il genocidio del mio popolo - spiega la scrittrice - E non facciamo nulla. Non è più possibile nascondersi dietro l’ignoranza: abbiamo gli strumenti per fermarlo, ma non vogliamo usarli. E questo ci rende tutti complici".
Le parole di Al Said sono taglienti. Non si ferma alla denuncia emotiva e parla dell'inerzia dell'Occidente, "come risultato della sudditanza alla politica estera statunitense. Israele è il principale alleato degli Stati Uniti nella regione, un piede americano nel Medio Oriente. Per questo non si vuole intervenire".
Scrivere Alae Al Said è "una forma di lotta". Ma non solo. È anche un atto di amore, di riconnessione con la propria storia, e di rivendicazione: "I palestinesi sono sempre stati raccontati da altri. Mai soggetti attivi della propria narrazione. Scrivere questo romanzo significa riprendere in mano la nostra storia, raccontarla con le nostre parole, restituire dignità al nostro dolore".
Non è un caso che citi Mahmoud Darwish, il grande poeta palestinese, e la sua frase: "Chi impone il proprio racconto eredita la terra del racconto". La narrazione, dunque, diventa un campo di battaglia. Ma anche un luogo di umanità. Perché, spiega Al Said, "se ti dico che durante la Nakba sono fuggiti 800.000 palestinesi, è solo un numero. Ma se ti racconto la storia di un bambino che ha perso il padre, che ha sogni, paure, speranze… allora forse riesci a sentire il mio dolore. E solo quando senti il mio dolore, puoi lottare per i miei diritti".
In un momento storico in cui "la disumanizzazione è diventata un'arma potentissima", "Il ragazzo con la kefiah arancione" è un romanzo che restituisce "volto, voce e cuore a chi da troppo tempo ne è stato privato". (di Paolo Martini)