Il declino del biglietto verde è stato per decenni annunciato ma mai realizzato: con il Trump-2 le cose stanno cambiando. La ricerca di Vladimiro Giacché e Michele Tonoletti in un mondo multipolare
C’è un dato che racconta più di mille analisi: nei primi sei mesi del 2025 il dollaro ha perso circa il dieci per cento del suo valore rispetto alle principali valute internazionali. Nello stesso periodo, l’oro ha infranto ogni record, toccando livelli che non si vedevano dagli anni Settanta. È un segnale, forse il più chiaro, che l’equilibrio monetario globale sta cambiando.
A raccontarlo nel dettaglio è il nuovo Focus della Banca del Fucino, dal titolo “Dedollarizzazione: mito o realtà?”, realizzato dall’Ufficio studi della banca e firmato da Vladimiro Giacché e Michele Tonoletti (disponibile qui). Un lavoro che non si limita a leggere i numeri, ma ricostruisce la lunga traiettoria che ha portato il dollaro al centro del sistema economico mondiale e le crepe che oggi ne mettono in discussione il ruolo.
L’eccezione americana e la fine di un’epoca
La ricerca parte da lontano, dal 1944 di Bretton Woods, quando il dollaro venne scelto come pilastro del nuovo ordine monetario internazionale. Allora gli Stati Uniti detenevano metà della produzione industriale mondiale e quasi il settanta per cento delle riserve auree globali. Nessuna potenza era in grado di sfidarne la supremazia. Ma, come ricordano gli autori, quell’egemonia nasce da “una congiuntura eccezionale”, destinata a non ripetersi.
Oggi il quadro è completamente diverso. Gli Stati Uniti pesano per il 26% del Pil mondiale, contro il 37% del 1965, mentre la Cina li ha superati a parità di potere d’acquisto. Washington non è più creditrice del mondo, ma il suo maggiore debitore. Eppure il dollaro continua a dominare. Come mai?
La risposta, spiegano Giacché e Tonoletti, sta nella finanza. Dopo la fine della parità aurea nel 1971 e la stagione della deregulation, l’economia americana si è trasformata in una “superpotenza finanziaria”, capace di attirare capitali da tutto il pianeta. È questo, e non più la forza industriale, a sostenere la domanda globale di dollari.
Il paradosso della forza: un’economia iperfinanziarizzata
A partire dagli anni Ottanta, con il “Volcker shock” e poi con le grandi ondate di deregolamentazione, Wall Street è diventata il cuore del sistema dollaro–centrico. L’industria si è ridotta a meno del dieci per cento del Pil, mentre i servizi finanziari ne rappresentano quasi un quinto.
L’America è riuscita a trasformare il suo debito in un prodotto da esportazione: il mondo intero compra dollari per investire nei suoi mercati. Dopo la crisi del 2008, il quantitative easing della Fed ha riempito di liquidità i listini azionari, facendo salire le valutazioni e consolidando l’attrattività degli asset statunitensi.
Ma questo meccanismo, osserva la Banca del Fucino, è diventato fragile. Il valore del dollaro dipende ormai dalla fiducia negli utili delle grandi corporation tecnologiche. “La sopravvivenza del dollaro – scrivono gli autori – è oggi sostenuta più dai multipli di Borsa che dai fondamentali dell’economia reale”.
Un equilibrio precario, che mostra segnali di surriscaldamento: la capitalizzazione complessiva del mercato Usa ha superato il 200% del Pil (prima volta nella storia), e le cosiddette “Magnifiche 7” – Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet, Meta, Nvidia e Tesla – concentrano oltre un terzo dell’indice S&P500. È la fotografia di un capitalismo iperconcentrato, in cui una manciata di colossi regge l’intero edificio finanziario globale.
L’illusione dell’intelligenza artificiale
Il nuovo motore di questa crescita è l’intelligenza artificiale. Dal 2022, con l’arrivo di ChatGPT e la corsa ai modelli generativi, gli investimenti delle big tech sono esplosi: oltre 350 miliardi di dollari nel solo 2025, destinati a superare i 400 nel 2026.
Ma l’IA, nota il Focus, potrebbe trasformarsi da promessa a rischio sistemico. I profitti del settore appaiono “circolari”: i guadagni di un’impresa vengono reinvestiti in altre aziende dello stesso ecosistema, alimentando una catena di valore interna che rischia di reggersi su se stessa. Allo stesso tempo, la concorrenza cinese si fa più aggressiva. Il lancio di Deepseek a Pechino, a inizio anno, ha dimostrato che prestazioni paragonabili a quelle dei giganti americani possono essere raggiunte con investimenti molto inferiori.
Dietro l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale, la Banca del Fucino intravede quindi il rischio di una nuova bolla. E se questa bolla dovesse scoppiare, a vacillare non sarebbero solo i listini di Wall Street, ma anche la fiducia nel dollaro come valuta di riferimento globale.
Trump e l’oro, ritorno al rifugio classico
La rielezione di Donald Trump ha accentuato le tensioni. Le sue politiche economiche – dai dazi generalizzati del progetto “Reciprocal Tariffs” al “Big Beautiful Bill” – hanno scatenato ondate di volatilità, riportando l’indice Vix ai livelli della crisi del 2008. L’incertezza sulle reali intenzioni della Casa Bianca, unita a un debito pubblico ormai oltre il 120% del Pil, ha indebolito la fiducia degli investitori.
Il risultato è stato un rifugio di massa nell’oro. Il prezzo del metallo giallo è più che raddoppiato dal 2023, spinto dagli acquisti delle banche centrali: oltre 3.000 tonnellate tra il 2022 e il 2024. Cina, Russia e Turchia sono in testa, ma anche Paesi alleati degli Stati Uniti – come la Polonia – hanno incrementato le riserve auree.
Per alcuni si tratta di dedollarizzazione, per altri di semplice diversificazione. Ma la sostanza non cambia: “L’oro – osserva il rapporto – è tornato a svolgere la funzione di safe asset, un tempo prerogativa dei titoli di Stato americani”. La perdita di fiducia negli asset denominati in dollari, spiega la ricerca, è un fatto strutturale e non più episodico.
Le crepe dell’ordine dollaro-centrico
Se l’oro è il simbolo più visibile della transizione in corso, i dati macroeconomici ne raccontano la profondità. La quota di riserve valutarie detenute in dollari è scesa dal 71,5% del 2001 al 57,8% del 2024, mentre cresce quella delle cosiddette valute “non tradizionali” – dollaro canadese, australiano, franco svizzero e soprattutto renminbi cinese – che insieme rappresentano oltre il venti per cento del totale.
Anche nei commerci internazionali qualcosa si muove. Il dollaro rimane dominante, ma la Cina sta spingendo con decisione per l’uso dello yuan negli scambi bilaterali, in particolare con i Paesi emergenti. Parallelamente, si moltiplicano le infrastrutture di pagamento alternative, come il sistema cinese Cips o le valute digitali di banca centrale, pensate per ridurre la dipendenza dal circuito finanziario statunitense.
Perfino i Treasury bond, per decenni considerati il bene rifugio per eccellenza, mostrano segnali di stanchezza: la quota detenuta da investitori esteri è scesa dal 50 al 30%, e i rendimenti non si muovono più in modo coerente con le aspettative sui tassi, segno di un rischio percepito più alto.
Un mondo senza egemone
La conclusione del Focus è prudente ma chiara: il dollaro resta ancora la spina dorsale del sistema monetario mondiale, ma la sua posizione non è più incontestata. Nessuna moneta – nemmeno lo yuan – è oggi in grado di sostituirlo come unico punto di riferimento. Tuttavia, la tendenza verso un multipolarismo monetario appare ormai irreversibile.
Non si profila un nuovo “egemone”, ma un mondo frammentato, in cui più valute coesisteranno su scala regionale e settoriale. Un mondo in cui la stabilità potrà essere garantita solo da nuovi accordi internazionali, “una sorta di Bretton Woods del XXI secolo”.
La Banca del Fucino intravede anche un possibile acceleratore di questo processo: un’eventuale crisi dei mercati finanziari americani, che troverebbe oggi – a differenza del 2008 – un pianeta molto più disposto a cercare nuovi equilibri.