
"Netanyahu ha scoperto soluzione è diplomatica, sua strategia militare ne esce perdente"
Se "le vibrazioni positive sono giustificate" per un accordo che dovrebbe portare al rilascio degli ostaggi e di un numero consistente di prigionieri palestinesi, è la fase due dell'attuazione del piano Trump a nascondere le maggiori insidie. E' a quel livello - sottolinea in un'intervista all'Adnkronos l'ambasciatore (in pensione) Pasquale Ferrara, fino a poco tempo fa direttore per gli Affari politici della Farnesina - che in passato "si sono arenate le altre tregue" concordate sotto la presidenza Biden. Questo scenario rischia di ripetersi.
Mentre l'attuazione della prima fase del piano è "relativamente facile", se ci eccettua il 'lodo' Marwan Barghouti, la cui liberazione sarebbe "un game-changer", anche nell'ottica di una riforma dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) - spiega l'ambasciatore - la fase due dell'accordo ha diversi aspetti ancora tutti da chiarire, dal disarmo di Hamas al futuro dello Stato palestinese, dalla governance di Gaza al ritiro delle Idf dall'enclave.
Su quest'ultimo aspetto, Hamas vorrebbe un ritiro completo delle Idf da Gaza, ma il piano in 20 punti prevede che Israele mantenga una zona cuscinetto all'interno della Striscia, evidenzia Ferrara, secondo cui c'è poi la questione del disarmo di Hamas e "qui il discorso è estremamente complicato. Tutti i processi di disarmo, come in Colombia e nello Sri Lanka, sono stati guidati dall'Onu - ricorda - Qui non si prevede un ruolo delle Nazioni Unite e bisogna capire come potrà svolgersi".
L'ex direttore per gli Affari politici della Farnesina evidenzia poi il nodo della governance di Gaza che vedrebbe la nascita di un comitato tecnocratico e apolitico. "Ma chi nomina questo comitato? Forse un gruppo di Paesi volenterosi? E con quale mandato e legittimazione?, domanda Ferrara, che cita l'esempio del Kosovo "dove ci fu un ruolo molto chiaro delle Nazioni Unite, ma dubito che Israele in questo momento voglia sentire parlare di Onu".
Al di sopra di questo comitato ci sarebbe poi un consiglio di garanzia presieduto da Donald Trump e Tony Blair che "per scherzo ho ribattezzato la nuova Compagnia delle Indie orientali", prosegue ironicamente l'ambasciatore, che evidenzia come si tratti in fondo di "un organismo che nasce dall'esterno, che non coinvolge l'Anp e con dei compiti abbastanza chiari nell'ambito della dimensione immobiliare, che non è sparita: la Riviera è uscita dalla porta, ma rischia di rientrare dalla finestra".
Ma l'aspetto "più problematico" della vicenda, secondo Ferrara, è che la Striscia di Gaza venga considerato in questo piano come "uno staterello distinto dalla Cisgiordania e non si parli del suo status finale, quindi del diritto all'autodeterminazione dello Stato di Palestina. Il rischio è che si cristallizzi la separazione tra Gaza e Cisgiordania e di avere, invece di un accordo di pace, un armistizio che aggravi le condizioni dei palestinesi". Infine i Paesi arabi hanno già marcato delle differenze politiche e "non credo siano disposti ad addossarsi l'intera responsabilità di una forza di stabilizzazione e della ricostruzione".
L'Italia ha annunciato a più riprese l'intenzione di dare il suo contributo a un'eventuale forza di stabilizzazione, ma dato che Israele sembra voler mantenere una presenza militare nella Striscia - sostanzialmente 'mani libere' per rispondere a eventuali minacce di Hamas - "si configura un contesto che i militari chiamano 'non permissivo', uno status di non sicurezza e - si chiede ancora Ferrara - quali sono i Paesi che rischiano di mandare dei peacekeeper con questi rischi molto seri? E' un tema politico".
L'ambasciatore ritiene quindi sbagliato stabilire "vincitori e perdenti" dell'accordo, ma osserva che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, "se riesce a portare a casa tutti gli ostaggi ne esce bene, ma male da una prospettiva diversa. Se la sua idea era di risolvere la questione con la forza, come dimostra l'operazione 'Carri di Gedeone a Gaza City, Netanyahu scopre che la soluzione è diplomatica e proviene da una trattativa. Questa vicenda è un po' la rivincita della diplomazia".
Ferrara liquida infine con una battuta il 'forcing' di chi in queste ore vorrebbe veder assegnato il premio Nobel per la Pace a Trump. "Secondo me il premio dovrebbe essere assegnato alla carriera come si fa con l'Oscar, alla fine dei mandati non in corso d'opera, altrimenti ci troviamo con il Nobel a Obama e poco dopo il rafforzamento delle operazioni militari in Afghanistan", conclude.