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Lavoro: Ichino, governo lascia grave ritardo in servizi al mercato

15 gennaio 2018 | 12.10
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Pietro Ichino
Pietro Ichino

I temi del lavoro e della previdenza infiammano la campagna elettorale. Ma le proposte di abolizione della legge Fornero sulle pensioni e del Jobs Act non piacciono affatto a Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, che le vede "molto male". Abolire la legge Fornero, avverte, innescherebbe una "crisi grave della nostra finanza pubblica", mentre il ritorno dell'art. 18 avrebbe "riflessi negativi sull'attrattività dell'Italia per i Paesi esteri". E il governo lascia "con un grave ritardo" nei servizi al mercato del lavoro. Ichino fa il punto con Labitalia della situazione su lavoro e previdenza a fine legislatura. "In questa smania di disfare tutto quello che ha fatto la parte avversa nell'ultima legislatura -spiega- vedo una delle tante manifestazioni della faziosità che affligge la politica italiana".

"Negli altri paesi europei maggiori si osserva un'attenzione molto maggiore, da parte delle opposizioni, all'esigenza di assicurare un minimo di continuità dell'evoluzione legislativa e di evitare un eccesso di volatilità dei contenuti della legislazione. L'evidente sottovalutazione di questa esigenza è la manifestazione di un livello molto basso del senso dello Stato, della capacità di mettere il bene comune al di sopra dell'interesse contingente di partito", sottolinea Ichino annunciando anche che alle prossime elezioni non si ricandiderà ("si può fare politica anche studiando e scrivendo sui giornali", spiega).

Ma Ichino non risparmia critiche neanche all'operato del governo, proprio sul tema del lavoro. In particolare, una "e non da poco", come lui stesso rimarca: "Quella di avere trascurato l'implementazione della parte della riforma che riguarda i servizi al mercato del lavoro. Si dice che il grave ritardo è un effetto dell'esito del referendum costituzionale, che ha impedito la realizzazione piena di questa parte della riforma". "È vero; ma le radici del ritardo stanno anche in alcune azioni e omissioni precedenti già osservabili prima del referendum. Su questo punto le opposizioni potrebbero mettere in difficoltà la maggioranza uscente; però ciò implicherebbe da parte loro l'indicazione di quel che intendono fare per recuperare il ritardo, per colmare le lacune. Invece, di questo nessuno parla", aggiunge Ichino.

Per l'Italia, abrogare la riforma pensionistica e quella dei licenziamenti, come propongono M5S, Lega e LeU, sia pure con accenti diversi, avrebbe conseguenze negative, spiega Ichino. "Tornare indietro rispetto alla riforma del sistema pensionistico del 2011 -dettaglia il giuslavorista- avrebbe probabilmente l'effetto di innescare una crisi grave della nostra finanza pubblica, con una crescita progressiva del costo del nostro debito che aggiungerebbe decine di miliardi di maggiori interessi da pagare alle decine di miliardi di maggiore esborso per le pensioni".

Ma anche "ripristinare in tutto o in parte il vecchio articolo 18 per i licenziamenti significherebbe un ritorno al vecchio regime di job property -dice Ichino- che per mezzo secolo ha fatto dell'Italia un caso unico nel panorama dei paesi occidentali". "Con riflessi molto negativi sull'attrattività del nostro Paese per gli investitori stranieri. Significherebbe anche tornare a un mercato del lavoro più vischioso, nel quale è più difficile il trasferimento dei lavoratori dalle imprese deboli a quelle capaci di valorizzare meglio il loro lavoro", precisa il giuslavorista.

C'è chi obietta che però i lavoratori si sentirebbero più sicuri nel loro posto di lavoro. "Non è così: la frequenza dei licenziamenti rispetto al numero di rapporti di lavoro a tempo indeterminato -risponde Ichino- non ha subito alcun aumento, né a seguito della riforma Fornero del giugno 2012, né a seguito di quella del marzo 2015. Chi denuncia la 'precarizzazione' del lavoro che sarebbe conseguita a queste riforme dovrebbe indicare, dati alla mano, in che cosa essa consisterebbe". "Invece, si è registrato un altro effetto rilevantissimo: il crollo del contenzioso giudiziale in materia di lavoro nel settore privato. Molti nemici di queste riforme sono in realtà nostalgici di un sistema di relazioni industriali in cui i protagonisti assoluti erano gli avvocati e i giudici", aggiunge il professore.

Riguardo, poi, alla proposta di Matteo Renzi di istituire il salario minimo legale, Ichino ricorda che "un minimum wage orario era già in vigore in 17 dei paesi Ocse prima del 1990; in altri 9 è stato introdotto in quest'ultimo quarto di secolo; oggi sono solo 8, quelli nei quali non è fissato uno standard minimo universale di retribuzione oraria". "L'introduzione di questa regola, in Italia, avrebbe un effetto tonificante sulle retribuzioni più basse in tutti i settori non coperti da un contratto collettivo, dove si registra diffusamente un fenomeno di abbassamento anomalo dei livelli salariali", dice.

"Però, occorre -precisa Ichino- che il legislatore o l'autorità amministrativa competente determinino lo standard minimo tenendo conto con molta attenzione dell'esigenza di non determinare una riduzione della domanda di lavoro regolare. Adottare questa misura, poi, implicherà un mutamento della struttura delle retribuzioni". Ciò vuol dire, spiega il professore, "che nei paesi dove si applica un regime di hourly minimum wage non ci sono la tredicesima e il trattamento di fine rapporto, come da noi: due voci di retribuzione differita che incidono all'incirca per il sette per cento ciascuna sulla retribuzione complessiva, rendendo meno trasparente e confrontabile il trattamento complessivo che ciascun lavoratore riceve. Se si introduce anche in Italia un minimum wage di fonte legale, occorre tenerne conto". "Voglio dire che, per fare un esempio, un salario minimo orario di sette euro più i contributi previdenziali ha un impatto effettivo diverso se a quei sette euro si aggiunge poi un altro euro di retribuzione differita", dettaglia Ichino.

Per quanto riguarda poi gli incentivi in forma di sgravi fiscali per i neoassunti, Ichino osserva che "occorre uscire dalla visione congiunturale delle politiche del lavoro". "L'obiettivo di fondo - spiega -deve essere quello di azzerare in modo permanente la differenza tra il 'cuneo fiscale e previdenziale' che grava sulle retribuzioni italiane e quello che grava sulle retribuzioni tedesche o su quelle britanniche".

Più facile dirlo che farlo, forse. "Con la legge di bilancio 2018 abbiamo compiuto un passo importante in questa direzione -ricorda Ichino- dimezzando l'aliquota contributiva per il primo triennio di lavoro a tempo indeterminato per tutti i giovani: non è un incentivo congiunturale, come lo sono state le decontribuzioni del 2015 e del 2016, perché questa misura ha carattere strutturale, permanente. Il Documento di Economia e Finanza indica per gli anni prossimi l'obiettivo di un alleggerimento strutturale, ovviamente di minore entità, della contribuzione per tutti i rapporti di lavoro stabili che interessano le classi di età maggiori. Dunque, non 'incentivo', ma riduzione strutturale del costo del lavoro stabile".

Ora siamo alla vigilia di una nuova legislatura. Ichino indica quelle che, secondo lui, dovranno essere le priorità sul lavoro che il prossimo governo dovrà affrontare. "Innanzitutto l'implementazione della parte della riforma del 2015 che riguarda i servizi al mercato del lavoro -dice- e in particolare l'assegno di ricollocazione per chi perde il lavoro. Poi, l'istituzione di un sistema di rilevamento a tappeto del tasso di coerenza tra la formazione professionale finanziata con denaro pubblico e gli sbocchi occupazionali effettivi".

Un indicatore importante che "è possibile realizzare -spiega il giuslavorista- istituendo una anagrafe dei frequentatori dei corsi di formazione analoga all'anagrafe degli studenti istituita presso il Miur, e incrociando i dati che ne escono con quelli delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro". "Questo sistema consentirà anche di mettere in piedi un servizio capillare ed efficiente di orientamento scolastico e professionale, che oggi manca quasi del tutto. Proprio la sua mancanza costituisce la causa maggiore della disoccupazione giovanile", conclude.

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