Banche, Gilli (Compagnia di San Paolo): "Fondazioni fattore di solidità per sistema"

Secondo il presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo, principale azionista in Intesa Sanpaolo tra le fondazioni con una quota del 6,63%, le fondazioni bancarie sono necessarie per mantenere la solidità, l'innovazione e lo sviluppo sostenibile nel sistema bancario italiano.

Marco Gilli
Marco Gilli
29 ottobre 2025 | 16.54
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Le fondazioni di origine bancaria svolgono un ruolo ancora fondamentale nel panorama finanziario italiano. Pur non esercitando un controllo diretto sulla governance delle grandi banche, conservano un peso strategico attraverso partecipazioni significative e un forte legame con il territorio. Marco Gilli, presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo, intervistato dall'Adnkronos sottolinea come la loro presenza rappresenti un ponte tra solidità finanziaria, innovazione sociale e sviluppo sostenibile, andando oltre il semplice ruolo filantropico. La collaborazione tra fondazioni e istituti bancari può contribuire alla stabilità e alla crescita del Paese, mantenendo un occhio attento all'innovazione e alle responsabilità sociali.

Qual è oggi il ruolo effettivo delle fondazioni di origine bancaria nella governance e nel controllo delle banche italiane? Mantengono ancora partecipazioni significative nel capitale delle banche? Con quale peso?

Nel caso delle grandi banche nazionali, le fondazioni di origine bancaria non hanno alcun ruolo nella governance, se non nel momento dei rinnovi, e certamente non nel controllo. Nel caso specifico di Intesa Sanpaolo, le sei principali fondazioni di riferimento costituiscono un patto parasociale, autorizzato dalla Bce, funzionale a proporre una parte della lista del Consiglio di Amministrazione, incluso il Presidente. Il patto si scioglie non appena si conclude l’assemblea che designa i componenti del CdA. Da quel momento in avanti, le fondazioni non hanno più alcuna influenza, né formale né informale, sulla banca.

Per quanto riguarda la partecipazione, la Compagnia di San Paolo è il principale azionista tra le fondazioni, con una quota del 6,63% del capitale di Intesa Sanpaolo (percentuale aggiornata dopo il buyback concluso il 20 ottobre). Questo rappresenta una presenza stabile e significativa, che si traduce in un fattore di solidità per il sistema, un legame profondo con il territorio e una fonte di rendimenti importanti per sostenere i nostri programmi filantropici. Il peso sul patrimonio è ovviamente in genere più alto ed è cresciuto negli ultimi anni, a causa dell’aumento del valore delle azioni di tutto il settore bancario. Secondo il protocollo Acri-Mef vigente non può eccedere in modo stabile e duraturo il 33% del portafoglio totale. È stato firmato ieri un addendum al protocollo, che per le banche a vigilanza rafforzata prevede un incremento fino al 44% della quota massima detenibile nel patrimonio delle fondazioni.

Le fondazioni continuano a poter influenzare decisioni strategiche chiave delle banche? Rappresentano ancora un elemento di stabilità o un freno all’innovazione nel settore?

Il Piano d’Impresa e le decisioni strategiche sono assunte autonomamente dalla banca per mezzo dei suoi organi decisionali. Vi sono tuttavia varie attività nei campi di azione delle fondazioni – in ambito sociale, educativo, nella ricerca e nell’innovazione – che vengono svolte in partnership. Nel caso di Intesa Sanpaolo credo che l’azionariato stabile delle fondazioni esprima soprattutto una condivisione di valori tra istituzioni che, pur con ruoli e missioni differenti, pongono le persone e il bene comune al centro delle proprie attività.

Inoltre, le fondazioni non rappresentano affatto un freno all’innovazione. Al contrario, sono spesso promotrici di processi innovativi e sperimentali nei territori. Penso, ad esempio, al nostro sostegno alla ricerca universitaria e allo sviluppo dell’intelligenza artificiale con iniziative come AI4Industry, che contribuiscono a rafforzare la competitività e la qualità sociale del territorio, generando effetti positivi anche per il sistema bancario.

Come si è evoluto negli ultimi anni il rapporto tra fondazioni e banche a seguito dei processi di aggregazione e concentrazione del settore?

Le fondazioni in generale non hanno avuto, né hanno voluto avere, alcun ruolo attivo nei processi di aggregazione e concentrazione. Non si sono sottratte ad operazioni di sistema per prevenire crisi del settore come nel caso dell’adesione al Fondo Atlante o favorire piani di rilancio come nel caso dell’adesione all’aumento del capitale della banca Monte dei Paschi di Siena. Dopo più di trent’anni dalla Legge Amato, i cambiamenti sono stati profondi, sia per le banche sia per le fondazioni. Oggi il nostro rapporto con la banca si fonda su una visione moderna e matura: Intesa Sanpaolo è un grande player europeo, e la Compagnia di San Paolo è diventata un vero e proprio “gruppo non profit” di rilievo internazionale. Il titolo del nostro Piano Strategico 2025-2028 – “Persone e Comunità al centro. Equità, innovazione e sviluppo nel Nord-Ovest, in un orizzonte nazionale e internazionale” – sintetizza bene questa evoluzione: una visione ampia, condivisa e orientata alla crescita del Paese.

In che modo le fondazioni utilizzano oggi i loro patrimoni: più come soggetti attivi nel controllo bancario o come enti filantropici e di sviluppo socio-economico?

Le fondazioni non sono soggetti attivi nel controllo bancario. Sono attori di sviluppo del territorio: bilanciano contributi filantropici diretti e investimenti mirati, ponendo grande attenzione a consolidamento e incremento delle riserve e del patrimonio. La Compagnia di San Paolo ha un patrimonio complessivo di circa 12 miliardi di euro, abbiamo previsto di destinare nel quadriennio 2025-2028 circa 1 miliardo di euro in contributi filantropici e azioni di capacity building a favore del territorio, e un ulteriore miliardo per la crescita del patrimonio. Destiniamo inoltre non più del 5% del patrimonio a investimenti “mission related”, ovvero capitali pazienti – tipicamente nell’ambito dell’innovazione, della rigenerazione urbana e dell’impatto sociale – che puntano all’impatto nel lungo termine più che al rendimento immediato. È un approccio che esprime un evidente circolo virtuoso tra buona gestione bancaria e capacità filantropica.

Rappresentano dunque ancora un elemento di stabilità per le banche o un volano di cambiamento?

Direi entrambe le cose. L’azionariato stabile delle fondazioni assicura stabilità e visione di lungo periodo, ma proprio per questo stimola l’innovazione e la sostenibilità a lunghissimo termine, a differenza di investitori puramente speculativi, contribuendo alla tenuta del sistema e al rinnovamento del Paese. Ci riconosciamo nel ruolo di agente di trasformazione, in linea con la nostra missione storica e con i principi del Documento Programmatico Pluriennale 2025-2028: equità, innovazione e sviluppo sostenibile del Nord-Ovest e del Paese, con al centro le persone e le comunità.

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