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Ebola: il medico, in Guinea ho visto famiglie decimarsi, ma voglio tornare

20 agosto 2014 | 18.38
LETTURA: 4 minuti

Ebola: il medico, in Guinea ho visto famiglie decimarsi, ma voglio tornare

A settembre partirà per la sua terza missione in uno dei Paesi dove Ebola fa davvero paura, la Guinea. Un angolo del mondo dove ha visto famiglie decimate dal virus ma in cui, comunque, non vede l'ora di tornare. E' Saverio Bellizzi, ematologo ed epidemiologo in forza a Medici senza frontiere, 37 anni, gli ultimi sette 'spesi' nella cooperazione.

"Può sembrare strano - dice parlando all'Adnkronos Salute dalla sua casa in Sardegna - eppure sto contando i giorni che mi separano dalla partenza: c'è una sorta di 'mal d'Africa' amplificato dal contesto. La paura c'è, ma è l'emozione meno forte rispetto a quelle che ti travolgono in un luogo dove la lotta con la malattia ti fa sentire, senza vole essere presuntuoso, quasi necessario. E una battaglia forte a cui non hai più voglia di sottrarti una volta entrato in gioco". Ad aprile era partito per la prima volta per la Guinea, dove l'epidemia cominciava a farsi largo. Primo epidemiologo italiano ad arrivare in questa emergenza, terzo considerando i colleghi stranieri. Era rimasto un mese. Ma a maggio era di nuovo in missione, sempre in Guinea, a Telimele, nella regione di Kindia.

Nonostante la lunga esperienza nelle emergenze sanitarie quella contro l'Ebola è una sfida un pò diversa, ammette Saverio Bellizzi. "E' una malattia altamente mortale. Psicologicamente è diverso l'impatto che ha sulla gente e anche quello che ha su noi operatori. Ovviamente, a parte le ansie iniziali, una volta che hai 'conosciuto' la malattia e hai imparato a gestire procedure e precauzioni la paura si riduce". Quello che invece è incredibilmente forte "è la sensazione di vittoria che si ha ogni volta che un paziente ce la fa. Sappiamo che ogni persona infettata ha il 90% di probabilità di morire. Se invece sopravvive la nostra sensazione è quella che si ha quando un parente stretto torna alla vita. Facciamo una vera e propria festa, con le foto, l'entusiasmo dell'intera comunità. E' un successo di tutti".

Il medico ricorda il caso di un ragazzo di 20 anni Malik. "E' guarito ma non è andato via - racconta - è rimasto a darci una mano. Lui era immunizzato ormai. E si è occupato più di una volta di rimanere nelle stanze con bambini piccoli infettati, in modo da evitare che le madri si infettassero per non lasciarli soli". E non è l'unico caso in cui l'ospedale resta punto di riferimento anche dopo la malattia. Come per le due sorelline di 7 e 13 anni, "sono guarite, miracolosamente. Eppure ogni giorno venivano a passare il tempo con noi".

Sono aspetti umani importanti in una situazione che resta però drammatica. "Siamo pochissimi a fronteggiare l'epidemia. Sarebbe necessario formare più persone per l'assistenza, ma soprattutto per 'tracciare' le persone che vengono a contatto con gli infettati. E' necessario redigere un vero e proprio diario di tutti gli spostamenti, delle singole azioni della giornata. Bisogna coinvolgere le persone del luogo. Ma siamo pochi anche per questo. C'è poi la necessità di diffondere le misure preventive, si sta tentando di coinvolgere i personaggi più autorevoli dei diversi luoghi, cercare di portarli dalla nostra parte. E anche questo non è facile con scarse forze".

Quello che spesso fuori dall'Africa è difficile capire è che il virus è facilitato dalle abitudini locali, in particolare dalle modalità di spostamento proprie di queste aree. "Si pensi ai viaggi nei bus super affollati che durano due giorni. Indagando da epidemiologo, ad esempio - conclude Bellizzi - ho scoperto un caso in cui un malato aveva preso un moto taxi. Aveva viaggiato attaccato al conducente il quale, nei giorni successivi aveva trasportato molte altre persone, con conseguenze immaginabili. E' una modalità di trasmissione che al di fuori di queste aree non sarebbe poessibile".

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