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Tuvalu e l’Australia: quando l’inquinamento rischia di diventare ingiustizia sociale

13 dicembre 2023 | 16.19
LETTURA: 3 minuti

Perché l'accordo tra con l'isola oceanica può essere compromettente per il piccolo Stato

Un atollo di Tuvalu - Canva
Un atollo di Tuvalu - Canva

Con l’aggravarsi delle condizioni climatiche, l’inquinamento ambientale si traduce sempre più spesso in ingiustizia sociale.

È quanto sta accadendo all’arcipelago di Tuvalu, che ha un’altezza massima di appena 4,6 metri sul livello del mare e potrebbe subire le conseguenze devastanti del cambiamento climatico tanto da aver chiesto e ricevuto aiuto dalla vicina Australia con l’accordo, stipulato lo scorso novembre, denominato “Unione Falepili”, che nella lingua del posto indica il buon vicinato, la cura e il rispetto reciproci.

Quest’atto solidale ha sollevato non pochi dubbi dato che il paese ora guidato da Anthony Albanese è da anni noto per la propria politica anti-migratoria, che ha lasciato in un limbo migliaia di richiedenti asilo, rinchiusi in carceri offshore o in hotel-prigioni privati di ogni diritto, come denunciato da Amnesty International.

Tuvalu si trova quasi a metà ‘strada’ fra l’Australia e le Hawaii ed è composto da tre isole coralline e sei atolli: con i suoi 26 chilometri quadrati complessivi è il quarto stato più piccolo al mondo e con poco più di 11 mila abitanti il secondo meno popolato. Il numero di abitanti assume tutt’altra sfumatura se si pensa che, secondo le proiezioni basate sull’attuale velocità di innalzamento dei mari, metà delle terre della capitale Funafuti saranno sommerse dalle acque entro i prossimi trent’anni.

Le stime prevedono inoltre che il 95% dell’arcipelago sarà sommerso ciclicamente dalle maree, diventando praticamente inabitabile prima della fine del secolo.

L’ingiustizia climatica e la geopolitica

Il timore è che, dietro la solidarietà, ci sia una strategia di controllo da parte dell’Australia sull’isola di Tuvalu e nell’area del Pacifico, in primis per i timori sulle mire espansionistiche cinesi in quest’area. A rafforzare questo timore, spiega economiacircolare.com, il fatto che l’accordo “Unione Falepili” sia arrivato poco dopo che la Cina ha sottoscritto un patto di sicurezza con le vicine isole Salomone.

Non c’è dubbio, invece, sul fatto che i cittadini dell’arcipelago siano costretti a chiedere asilo a causa del surriscaldamento climatico che minaccia costantemente i ghiacciai e provoca l’innalzamento del livello del mare. Quasi un quinto della popolazione totale di Tuvalu è già emigrato, per lo più in Nuova Zelanda.

Il primo ministro australiano Anthony Albanese ha annunciato il nuovo accordo con lo stato polinesiano a novembre scorso con l’intento dichiarato di permettere ai suoi cittadini di andare a vivere in Australia. In base all’accordo, 280 persone all’anno potranno usufruire di un ‘percorso speciale di mobilità’ che prevede visti per ‘vivere, lavorare e studiare’ in Australia. Praticamente in meno di 40 anni tutta la popolazione autoctona potrà essere emigrata nella grande isola oceanica.

L’accordo ‘Unione Falepili’ prevede anche di aumentare i finanziamenti destinati a Tuvalu per le strategie di adattamento al cambiamento climatico. Tra gli interventi è previsto un insieme di aiuti dell’equivalente di circa 10 milioni di euro per espandere del 6% la terraferma di Funafuti, l’isola principale dell’arcipelago.

La parte più controversa dell’accordo è quella che riguarda la gestione della difesa e della politica estera. L’Australia, infatti, si impegnerà a difendere Tuvalu da eventuali aggressioni militari ma il governo australiano avrà però il potere di veto sugli accordi per la sicurezza che Tuvalu vorrà stringere con altri paesi.

Secondo Albanese, questo “è l’accordo più significativo mai raggiunto tra l’Australia e un paese del Pacifico”, mentre il presidente tuvaluano Kausea Natano lo ha definito ‘non solo una tappa fondamentale, ma anche un grande passo in avanti per la missione condivisa di assicurare la stabilità, la sostenibilità e la prosperità nella regione’.

Dietro le dichiarazioni, tuttavia, si cela il timore che il piccolo stato polinesiano, che si è guadagnato l’indipendenza dal Regno Unito dall’ottobre del 1978, non abbia avuto alternative per salvaguardare la vita e il futuro dei suoi abitanti, incluse le condizioni più controverse. Un evidente caso di come il surriscaldamento climatico e le conseguenze sugli oceani si possano trasformare in ingiustizia sociale.

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