
Non sono solo Ungheria e Slovacchia ad acquistare idrocarburi russi, che 'cambia etichetta' una volta arrivato in Europa, spiega il Postdoctoral Fellow dell'Università di Oslo. Si possono rifornire altrove, ma la dinamica si inserisce in rapporti di interdipendenza in cui la politica conta più dell'economia, come dimostra anche il rapporto Ue-Usa. E mercato e geopolitica si muovono più veloci delle roadmap Ue
“Sicuramente vi sono molti più Paesi Ue, non solo Ungheria e Slovacchia, ancora dipendenti dai flussi di gas naturale russo che transitano attraverso la Turchia”. Lo spiega all’Adnkronos Francesco Sassi, Postdoctoral Fellow all’Università di Oslo, commentando l’accusa rivolta da Budapest ad altri Paesi Ue in risposta alle pressioni da Ue, Usa e Ucraina sul cessare l’acquisto di idrocarburi russi. Questo vale anche per il petrolio, prosegue: “A livello apparente” sono solo Budapest e Bratislava le capitali europee che continuano a importare quello russo, ma sono a loro volta interconnesse con gli altri mercati Ue mediante un’infrastruttura capillare. “Quando la molecola di gas o greggio russo arriva in uno di questi Paesi, cambia l’etichetta d’origine e viene esportata, è russa o non lo è più? Non c’è una risposta univoca, e nonostante le pressioni che fa Bruxelles per imporre certificati di origine, è molto difficile etichettare l’energia come i prodotti del supermercato”, sottolinea l’esperto.
Sono diversi, dunque, i Paesi Ue che continuano “a giovare in maniera molto differenziata dei prodotti petroliferi a base russa”, rileva Sassi. Questo al netto delle leggi Ue più recenti che hanno introdotto un embargo sull’import di prodotti petroliferi russi da Paesi terzi, che dovrebbe colpire particolarmente l’export dell’India, la quale “assorbe molta produzione russa e vende al mercato internazionale”. Come evidenziato dalla stessa Nuova Delhi al riaccendersi delle tensioni col presidente Usa Donald Trump, che ha imposto dazi del 50% per l’acquisto di greggio russo, il meccanismo di riclassificazione “è stato legittimato, anzi supportato, negli scorsi anni, sia dalla Casa Bianca che da Bruxelles, per bilanciare i mercati energetici globali in epoca grande volatilità”; oggi la stessa dinamica è “ripetuta e riflessa in altre interdipendenze politiche che coinvolgono altri Paesi europei”.
Detto questo, la tesi ungherese secondo cui l’approvvigionamento di petrolio dalla Russia è una necessità fondamentale è “fuori luogo”, prosegue l’esperto, sottolineando che l’Ungheria può rifornirsi tramite l’infrastruttura europea. “Va considerata la questione dei costi e della convenienza economica, ma qui la questione mi pare principalmente politica, relativa a una sovranità energetica nazionale enfatizzata al punto da cancellare qualsiasi altra variabile che può condizionare i flussi”. Anche perché buona parte dell’Europa occidentale, nonostante la dipendenza residua, ha cessato di importare idrocarburi russi, evidenzia.
Quella europea, così come quella ungherese, è “un tipo di dipendenza sviluppata nel contesto di decenni di interdipendenza energetica, che non possono essere cancellati di punto in bianco senza aspettarsi ripercussioni politico-economiche molto profonde”, sottolinea Sassi. Per ora queste sono state 'limitate', ma il taglio di import russi non ha cambiato le sorti della guerra in Ucraina. La domanda che pone l’esperto è quella della praticabilità di cambi drastici ai sistemi di approvvigionamento, considerando le altre variabili in gioco, come la crescente politicizzazione del rapporto energetico tra Ue e Usa causato dal ritorno di Trump alla Casa Bianca.
Il ricercatore ricorda che nel contesto dell’accordo sui dazi di luglio Bruxelles si è impegnata ad acquistare 750 miliardi di dollari di energia statunitense in tre anni, accordo che definisce “contraddittorio, paradossale, e francamente imbarazzante”. Tuttavia, il piano energetico “è fondamentale per capire i rapporti di potere. A me pare che gli Usa abbiano usato leve per ottenere un accordo nei fatti non implementabile”, ponendo l’Ue in una “condizione politica di perenne e continuo svantaggio” perché quando Washington vorrà esercitare pressioni su Bruxelles in futuro potrà richiamare i termini disattesi dell’accordo.
Il tema degli approvvigionamenti è dunque profondamente politico: anche in Ungheria e Slovacchia “non si guarda soltanto all’economicità dei flussi energetici, ma alla rilevanza dei flussi politici. Occorre che si capisca molto bene in un’Europa che crede nelle leggi del mercato globale come logica che sottende alla politica estera e alla geopolitica in generale. Il mondo sta cambiando e lo sta facendo molto più velocemente di quanto l’Europa possa riorganizzare la propria sicurezza energetica”. Senza contare le difficoltà pratiche di rompere gli accordi commerciali di approvvigionamento con la Russia, mossa che “porterebbe ad arbitrati internazionali e risarcimenti molto oltre le possibilità finanziare” di Paesi come Ungheria e Slovacchia.
In questo frangente, la roadmap presentata dall’Ue per completare il phase-out degli idrocarburi a favore della generazione di energia pulita “è quotidianamente messo in discussione”. Fermo restando che si potrebbe comunque raggiungere la piena attuazione del programma europeo, non in virtù di esso, ma “quando il mercato ci avrà già portato in quella direzione, magari per mancanza di interesse europeo e anche russo”. I risultati di tali piani di medio periodo “arrivano sempre quando le cose sono già state decise altrove, o da questioni di mercato o questioni di geopolitica”, due forze che “si muovono molto più velocemente di qualsiasi roadmap”, conclude Sassi.