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Maria, avere 17 anni a Mariupol: dal sogno all'incubo, prima della salvezza all'estero

05 maggio 2022 | 12.09
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Il racconto di una giovane ucraina, fuggita dalla città dopo settimane di bombardamenti

(foto Afp)
(foto Afp)

“Mariupol è la mia città, quella dove sono nata e cresciuta, dove sono nati i miei genitori e dove ho incontrato il mio primo amore, di cui oggi non ho più notizie. Da Mariupol sono scappata insieme ai miei genitori e al mio gatto la mattina del 17 marzo, in macchina tra decine e decine di auto impazzite. Sembrava che le persone al volante non sapessero dove andare, che avessero dimenticato come si guidasse. Intanto una raffica di proiettili cadeva come pioggia sulle auto, quelle dei civili, ai posti di blocco i russi ci puntavano i fucili e sparavano a chi faceva troppe domande o si rifiutava di seguire le indicazioni imposte. Erano ventuno giorni che ci riparavamo nel seminterrato del nostro palazzo, quel giorno correvamo via e non sapevamo se mai saremmo arrivati”. Maria ha 17 anni, mentre parla all’Adnkronos in videochiamata con il suo cellulare, è al sicuro “all’estero”, dove preferisce non dirlo per ragioni di sicurezza.

A giugno avrebbe finito la scuola, avrebbe festeggiato dove oggi non ci sono che macerie e avrebbe indossato un vestito rosso per il ballo di fine anno che avrebbe cucito insieme alla mamma e di cui è riuscita a portare via la stoffa. “Fino all’ultimo ho creduto che la guerra non sarebbe iniziata - racconta - Non ci ho voluto credere. Perfino quando abbiamo cominciato a sentire le esplosioni in lontananza, ci rassicuravamo in famiglia che non sarebbero arrivate da noi, che dovevamo solo stare più attenti, nasconderci in bagno".

"Quelle bombe lontane facevano tremare i vetri, l’intonaco del soffitto ci cadeva in testa. Per molti giorni, dall’inizio dell’invasione, siamo rimasti nel nostro appartamento. Ho imparato ad apprezzare l’acqua, che iniziava a scarseggiare, a non dare per scontato il cibo, sempre meno nei supermercati saccheggiati e distrutti, mancava la corrente e faceva freddo” ricorda.

“Non dimenticherò mai un giorno quando, già stanchi, eravamo sdraiati a terra sul pavimento del soggiorno. Non so nemmeno cosa stessimo aspettando, sentivamo le esplosioni continue, sempre più vicine. In quel momento, in un limbo tra la rassegnazione e l’illusione, un razzo ha colpito il nostro palazzo. L’onda d’urto è stata violenta - racconta commossa all’Adnkronos Maria - ricordo di aver urlato fortissimo. Mia madre invece non riusciva più a camminare, letteralmente paralizzata dal terrore. Non c’era tempo, dovevamo correre nel seminterrato, proteggerci, così l’abbiamo trascinata giù insieme, io e mio padre, mentre mia sorella prendeva il gatto. La vita precedente era ormai finita. Non sapevamo nemmeno se ce ne sarebbe stata una nuova. Eravamo indifesi, inermi. C’era quel razzo enorme ficcato sulla facciata del mio palazzo, la nostra vita lì dentro”.

“Ogni giorno sentivamo le esplosioni - continua Maria - ci nascondevamo nei seminterrati e tremavamo al pensiero che ci avrebbero trovati anche lì per buttarci le bombe. Mia mamma, malata da tempo, nei seminterrati è peggiorata. Pregavo Dio che riuscisse a sopravvivere mentre papà ha dovuto rianimarla due volte, lì sotto. C’erano momenti in cui non volevo vivere, me ne stavo semplicemente sdraiata a implorare che tutto finisse presto". "Oggi è diverso - spiega - è tornata la voglia di vivere, di essere utile. Quando ce ne siamo andati, quella mattina di un mese e mezzo fa, semplicemente non avevamo alternative. Ormai senza quasi più cibo, acqua e nel seminterrato dove ci riparavamo mancava l’aria. I razzi sembrava fossero lanciati da una fionda instancabile e del nostro appartamento, dove sognavamo di essere intoccabili, non è rimasto nulla.”

Quindi, la fuga. “In macchina abbiamo sentito di un villaggio, Malekin, nella regione di Donetsk, dove avremmo potuto trovare un riparo. Ci siamo imbattuti in un posto di blocco della repubblica fantoccio di Donetsk dove ci hanno detto che non potevamo più andare a Malekin, che le persone di Mariupol dovevano andare a destra. Mio padre ha cercato di spiegar loro che dovevamo andare lì, che eravamo solo dei civili, una famiglia. Ci hanno minacciato con i fucili - racconta Maria - Siamo così arrivati a Manhush, città già controllata dai russi. Sentivamo raffiche di spari sulle auto dei civili, i militari ai posti di blocco si erano scocciati di rispondere a chi, come noi, spiegava di dover andare altrove o magari chiedeva informazioni. La situazione era critica, abbiamo ripreso a nasconderci, nei negozi il cibo era solo russo e a prezzi altissimi. Coi soldi che avevamo siamo riusciti a comprare due pezzi di pane da dividere. E’ da lì che siamo riusciti a scappare all’estero dove ci troviamo, finalmente al sicuro”.

“E oggi, da qui - sospira - guardo Mariupol in televisione, su internet. Salvo le foto dei posti dove una volta ero felice. Il teatro, dove sono andata a inizio inverno e dove avevo già comprato i biglietti per andare a vedere ‘Il maestro e Margherita’, piazza della Libertà, dove c’erano delle colombe molto particolari e delle panchine a gradini, Port City, il centro commerciale dove i popcorn erano i più buoni della città e c’era una cartoleria dove andavamo a comprare tutto il necessario per la scuola. Dall’inizio del conflitto è stato prima saccheggiato poi completamente distrutto. Era lì che dopo scuola ci riunivamo. Oggi non so nemmeno più dove sono i miei amici, nel momento in cui stavamo per passare il filtraggio ho cancellato l’intera rubrica del cellulare per sicurezza, so che non tutti sono sopravvissuti, alcuni sono rimasti a Mariupol, non riusciamo ancora ad avere notizie della nostra professoressa e della sua famiglia e temo per la mia insegnante di lingua ucraina”.

“Prima della guerra non ero mai uscita dai confini del Donetsk, sognavo il ballo di fine anno, il vestito rosso che avrei cucito insieme a mamma e la corona di papaveri che avrei indossato con delle scarpe bellissime. Adesso - dice ancora Maria - mi capita di non riuscire a parlare, spesso, fatico a dormire, ogni rumore fa paura e con gli occhi ogni volta cerco un rifugio. Oggi, finalmente al sicuro, potrei ricevere un’istruzione e rendermi utile, anche da qui. Da due giorni ho ripreso la scuola, ma voglio tornare a Mariupol, aiutare a ricostruire la città e il paese. So che un giorno le cose andranno meglio. Vorrei una casa, visto che la mia ci è stata portata via. E vorrei diventare una brava giurista per dare una mano concretamente nel far valere i diritti dei più fragili”.

Lei, che a 17 anni non ride quasi più, ricorda di averlo fatto in due occasioni: “Quando a Zaporizhia abbiamo incontrato dei nostri conoscenti, anche loro riusciti a salvarsi. E poi quando dei volontari, una volta saputo che ero la prima suonatrice di bandura (uno strumento musicale tradizionale usato in Ucraina, ndr) a Mariupol me ne ha regalata una".

"Mariupol è un inferno - spiega - lì la vita non esiste più. I social mi aiutano a vedere che il mondo è diverso, non concentrato solo sulla guerra. C’è chi mi insulta, chi mi minaccia solo perché ucraina: sono quelli che la guerra la vedono dal divano. Ma c’è anche chi, e sono la maggior parte, mi supporta e mi sostiene”.

Un passo indietro nel racconto di Maria le fa tremare la voce. Parla di oggi, al sicuro, e torna a ieri, quasi con un sussulto. “Il primo giorno in cui ci trovavamo nel seminterrati non sapevamo neppure che saremmo riusciti a sopravvivere - irrompe Maria - che ci sarebbe stato un altro giorno. Poi, di sfuggita, io e papà siamo riusciti a correre su fino al nostro appartamento per recuperare qualche vestito caldo da indossare, qualche oggetto personale. Con le lacrime agli occhi ho afferrato al volo quel pezzo di stoffa rossa che avevamo comprato per cucire il vestito del ballo di fine anno. Quando siamo tornati giù, sotto terra, quasi senza cibo e con ancor meno speranze, mi sono aggrappata a quella busta, lì dentro c’era quello che sarebbe dovuto essere il mio vestito, era per me la cosa più importante in quel momento".

"Con mamma ora - conclude Maria, tornando a oggi - da qui, lo abbiamo tagliato, al momento abbiamo solo un ago arrugginito e ci manca il filo, ma sono certa che troveremo tutto l’occorrente per cucirlo. Sarà il simbolo della mia rinascita e di quella del mio Paese che mi manca moltissimo”.

(di Silvia Mancinelli)

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