Delta V: "A Milano ci si è dimenticati della musica"

La band torna con 'In Fatti Ostili', il nuovo disco che si interroga sul presente, in tempi cinici e disillusi. "Siamo cambiati molto, oggi le parole guidano la macchina. Brani nuove generazioni?Omologati" E su Sanremo: "Sarebbe interessante poter salire su quel palco..."

I Delta V (foto Marco Olivotto)
I Delta V (foto Marco Olivotto)
16 ottobre 2025 | 14.51
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Cinque anni dopo 'Heimat', i Delta V tornano a raccontare il mondo con 'In Fatti Ostili', un disco che si interroga sul presente, in tempi cinici e disillusi, e che segna una nuova tappa nel percorso di una delle band più sofisticate e coerenti della scena italiana. Un album in uscita domani per Universal Music Italia, che fotografa una società attraversata dalla paura e dalla diffidenza. Ne abbiamo parlato con Carlo Bertotti, Flavio Ferri e Marti, per capire cosa significa oggi resistere - e fare musica - in tempi ostili, con uno sguardo sulla scena di Milano, le nuove generazioni e il palco dell'Ariston.

‘In Fatti Ostili’ racconta cinque anni di vita e di inquietudine. Il titolo suona come un manifesto, con una nota politica, anche se non ‘militante’. Vi sentite ancora una band che usa la musica come forma di resistenza culturale?

"Ci sentiamo ancora una band e già è tanta roba, perché comunque dopo tanti anni il fatto che ci sia un sodalizio umano, oltre che artistico, è una cosa veramente molto importante. Resistenza è una parola imponente; quindi, noi nel nostro piccolo cerchiamo di resistere a tantissime cose. Ci piace che 'band' possa essere associato a questo disco come termine e speriamo di meritarcelo".

Dopo 'Heimat', avete detto che la vostra visione della musica è cambiata radicalmente. In cosa questo nuovo disco vi rappresenta meglio e più autenticamente?

"Possiamo dire che più che un cambiamento rispetto a 'Heimat', c’è stata un’evoluzione. Quando parliamo di questo nuovo disco, diciamo sempre che, se 'Heimat' rappresentava un ritorno a casa dopo tredici anni di silenzio dei Delta, e quindi un riappropriarsi delle proprie radici, questo nuovo lavoro è lo step successivo. È un po’ come quando torni a casa dopo un lungo viaggio: all’inizio ti è mancato quel mondo familiare, ma dopo poco ti riabitui e capisci anche i motivi per cui, a un certo punto, avevi sentito il bisogno di andartene. Ecco, la differenza sta tutta lì. Non si tratta di essere migliori oggi rispetto a ieri, ma semplicemente diversi. Il cambiamento spesso ha un’accezione positiva, perché significa movimento, crescita. Parlare di un progetto musicale in termini di 'meglio' o 'peggio' sarebbe riduttivo. Per noi l’evoluzione è fondamentale: nel momento in cui smetti di evolverti, smetti anche di avere una ragione d’essere. E rispetto al periodo dei Delta V '1.0', siamo cambiati molto. All’epoca la priorità era la musica, la ricerca sonora, la ricerca di uno 'stile'. Oggi invece sono le parole a guidare la macchina: sono loro a dettare i tempi, a dare il ritmo e la direzione a ciò che vuole essere, nel 2025, una canzone dei Delta".

'Regole a Milano' è un ritratto amaro di una città che seduce e stritola. In un intervento su 'Rolling Stone' avete detto: "Milano è diventata una vetrina scintillante e lussuosa, ma senza un’anima, senza una vera identità". Cosa vi manca di più della vecchia Milano e cosa invece vi tiene ancora qui?

"Milano è cambiata come siamo cambiati noi e questo è nell'essere delle cose. Non c'è un intento passatista, polemico o di nostalgia. Le cose cambiano e probabilmente Milano è cambiata troppo velocemente in questi ultimi anni, con un'ansia di essere sempre più performante, tirata a lucido. È una città dove veramente si fatica un po' a riconoscere i profili delle cose che ti circondano ed è una città estremamente competitiva. Chi non riesce a tenere il passo rimane indietro e sovente rimane fuori, perché poi il concetto è proprio quello, di rimanere isolato o in ogni caso fuori dalle dinamiche di un luogo che è estremamente veloce. Questa cosa ci ha fatto riflettere, ci ha fatto pensare e la canzone nasce così, nasce da quel tipo di sentimento".

La chiusura del Leoncavallo ha scatenato un’ondata di reazioni: è solo la fine di un luogo simbolico o il segno di una città che non tollera più i suoi spazi liberi?

"Senza dubbio la seconda. Il Leoncavallo è stato un simbolo importante per Milano, come lo sono stati altri luoghi che oggi non esistono più. Lo abbiamo voluto inserire anche nel videoclip di Regole proprio per questo motivo: rappresenta un pezzo di una città che è cambiata profondamente. A Milano c’erano tantissimi spazi - e non parliamo solo di centri sociali - ma di locali, club, negozi di dischi, sale d’incisione, sale prove…luoghi che hanno fatto la storia culturale della città. Oggi, la maggior parte di questi posti non è stata riconvertita o trasformata in altri luoghi di aggregazione: sono diventati palazzine di classe A, supermercati o templi della ristorazione. Il problema è che a Milano sembra ci si sia dimenticati della musica, di quella che parte dal basso, di quella che creava opportunità di incontro. Eppure la musica è cultura, una parte fondamentale della cultura contemporanea. Non si tratta di nostalgia: il punto è che non si è creata un’alternativa. E questa mancanza, secondo noi, è un disastro, soprattutto per le generazioni più giovani, che non hanno più spazi dove vivere e condividere la musica come esperienza reale".

Con la chiusura del Plastic, dopo quella di club storici come Rolling Stone, Odissea, Propaganda, è come se fosse sparita un’intera geografia di club. Che cosa ha perso Milano - e dove credete che si sia rifugiata oggi quella cultura?

"Sotto certi aspetti certa musica ha trovato riparo in un a certa provincia, quella dove esistono realtà più gestibili e un rapporto più diretto con le amministrazioni locali. Il vero problema di Milano, però, è che sono scomparsi tutti quegli spazi medi e medio-piccoli che un tempo rappresentavano il cuore pulsante della vita musicale. Oggi esistono quasi solo i mega concerti, eventi enormi dove le persone arrivano, assistono, ma difficilmente si conoscono o instaurano legami. Sono esperienze più collettive che comunitarie, grandi riti ma senza relazione. Un tempo, invece, sceglievi dove andare perché ti riconoscevi nelle persone che frequentavano quel posto, perché ogni luogo aveva una sua identità, una sua anima. Purtroppo abbiamo perso lo spazio musicale come luogo d’incontro, di scambio, di condivisione di idee e sensazioni".

In 'Panico' raccontate la perdita di equilibrio e la paura. È una canzone autobiografica o un riflesso di questi anni di ansia e tensioni costante?

"Diremmo entrambe le cose. Abbiamo un passato significativo di periodi che hanno attraversato le nostre vite complicandole e la pandemia per certi aspetti ha sicuramente amplificato questo fenomeno. Abbiamo pensato di poterne parlare apertamente, perché ha fatto parte della nostra quotidianità, diventando allo stesso tempo un tratto molto presente del nostro tempo. I primi versi della canzone nascono proprio da un ricordo di una terapia, un percorso durante il quale si è imparato a respirare di nuovo, a ritrovare una forma equilibrio, una modalità per salvarsi. È incredibile come qualcosa di così semplice, come il respiro, possa diventare un gesto di consapevolezza e rinascita. Eppure, ce ne dimentichiamo spesso. L’incipit del brano vuole proprio ricordarlo: quanto sia fondamentale imparare a respirare davvero".

In 'Nazisti dell'Illinois' cantate 'Leggi le classifiche, brucia le classifiche e spara il dj'. Una frase potente, quasi un manifesto contro l'omologazione. È solo una provocazione o il segno di un malessere reale verso un sistema musicale che misura tutto in numeri, trend e visualizzazioni? Avete attraversato gli anni '90, l'epoca dei club, dei vinili, delle radio libere. Come vi rapportate oggi con l'algoritmo e con la musica usa e getta?

"Il problema non è solo musicale. Quello della musica e del dj è una metafora: oggi tutto viene quantificato, ogni cosa viene ridotta a un numero, a una misura. Ma la differenza tra noi e quei numeri è l’umanità. Se ci dimentichiamo di questo, il nostro dovere è quanto meno provare a ribellarci. Nel brano questa idea è portata all’estremo, ma ciò che intendiamo è una ribellione intellettuale, una forma di resistenza al bisogno costante di classificare, confrontare, attribuire un valore numerico a tutto. Non accettare questi criteri sarebbe già, di per sé, una vera rivoluzione, una presa di coscienza collettiva. Quanto alla musica pop, non è che oggi faccia più schifo di ieri. Il punto è che oggi, con tutta la disponibilità tecnica e la consapevolezza che abbiamo, ci si aspetterebbe una maggiore coscienza estetica ed etica, una forma di buon gusto evoluto in linea con i tempi. Quello che ci inquieta è che, soprattutto tra le nuove generazioni, questa consapevolezza sembri completamente assente. Soprattutto nei testi, nell’omologazione sonora dei brani, nella mancanza di coraggio di osare o di mettersi davvero in gioco. È come se la paura di rischiare avesse sostituito la voglia di esprimersi, ed è proprio questo che ci colpisce di più".

Guardando la scena attuale, vedete qualcosa o qualcuno che vi entusiasma davvero nella nuova generazione musicale italiana?

"Sì, secondo noi ci sono pochi spazi e quindi è difficile scoprirle certe cose, però sì, ci sono delle realtà molto valide, pensiamo ad esempio a Emma Nolde, Prima stanza a destra, Ginevra".

In un mondo sempre più virtuale, quanto è importante per voi la fisicità dei live?

"È una cosa fondamentale, ma non solo per il fatto di suonare dei pezzi: è soprattutto per ristabilire un contatto reale con le persone, con chi viene a vederti. È bello tornare a vivere quel contatto fisico, che a volte abbiamo dimenticato. Oggi facciamo fatica a rapportarci con chi ci ascolta ma non vediamo mai; il live ti aiuta proprio in questo, ti rimette in connessione con la realtà. Ed è, forse, la parte più bella di tutte. Poi ognuno di noi vive il live in modo diverso. Flavio è in relax totale, completamente “scialla”. Io invece sono sempre un po’ in tensione, perché voglio che tutto funzioni al meglio, che il suono sia perfetto, che l’insieme regga. E Marti… lei entra in un suo limbo, una specie di bolla in cui rimane dall’inizio del primo pezzo fino alla fine dell’ultimo bis. È come se cercasse di trattenere tutto dentro per non annegare: una forma di osmosi emotiva, quasi una trance. È qualcosa che noi stessi facciamo fatica a spiegare, ma è anche ciò che rende ogni concerto unico".

L'ultima ma inevitabile: Sanremo 2026, vi piacerebbe salire su quel palco, magari con un brano come 'Regole a Milano' o pensate che il vostro linguaggio funzioni meglio in spazi meno mainstream?

"Sanremo è oggettivamente una fotografia della musica italiana e certo sarebbe interessante poter salire su quel palco e portare la nostra personale visuale, raccontando noi stessi e la nostra prospettiva del modo di fare musica negli anni 20 di questo secolo. Detto questo, non crediamo onestamente che per quello che siamo oggi e per le modalità di racconto del Festival questa possa essere una possibilità realistica". (di Federica Mochi)

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