
Esce l'autobiografia anticonvenzionale dell'attrice: tra dolori infantili, gloria internazionale e rivincite d’amore
"Sembro buona, ma sono una monella con la faccia d'angelo". È con questa frase tagliente e ironica che Ornella Muti apre la sua prima autobiografia, "Questa non è Ornella Muti" (La nave di Teseo, 192 pagine, 19 euro), che esce in occasione del suo settantesimo compleanno. Un memoir che è tutto fuorché celebrativo, dove l'icona del cinema italiano mette da parte il mito per restituire al lettore la verità più intima: quella di una bambina ferita prima ancora di diventare attrice, diva, simbolo.
Nata Francesca Romana Rivelli, prima di calcare i red carpet internazionali e lavorare con registi del calibro di Monicelli, Risi, Landis e Woody Allen, fu una bambina fragile, spedita dalla madre in Svizzera a soli quattro anni per curarsi i polmoni. Un soggiorno che si trasformò in un silenzioso abbandono durato un anno e mezzo, destinato a lasciare segni indelebili. Senza rinnegare la sua storia e i suoi ricordi, la regina della commedia anni '70 e '80 sembra ripercorrere un destino di esule inscritto nelle origini della sua famiglia, che vide i suoi avi materni, medici degli zar Romanov, scappare in Europa per sopravvivere alla Rivoluzione russa del 1917.
Nel libro, Muti ripercorre la metamorfosi da Francesca a Ornella con lucidità e senza autoindulgenza: un percorso segnato da successi luminosi ma anche da solitudini, cadute e risalite. Tra le pagine, scorrono ricordi di set, sfilate con Armani e Valentino, la notte degli Oscar, ma anche passioni dolorose, uomini inseguiti e perduti, e il filo costante di un’identità in cerca di sé stessa.
"È una guerriera", scrive Sean Baker, regista premio Oscar e Palma d’Oro per "Anora", nella prefazione. "Ornella ha sfidato gli uomini che cercavano di controllarla, ha messo in discussione le norme sociali e si è ritagliata una propria identità".
"Questa non è Ornella Muti" non è solo la storia di una diva. È il racconto potente di una donna che ha scelto, finalmente, di guardarsi allo specchio e di raccontare, senza trucco né inganno, tutto ciò che c’è dietro la maschera più bella del nostro cinema. (di Paolo Martini)3