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Lavoro: Randstad, aumento stipendio primo motivo per cui si cambia

15 luglio 2014 | 17.17
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Ma i dipendenti del nostro Paese mostrano una posizione contraddittoria sull'impiego ricoperto. Intanto, è caccia ai freelance.

Lavoro: Randstad, aumento stipendio primo motivo per cui si cambia

E' l'aumento di stipendio, prima ancora dell'opportunità di crescita professionale o di un profilo maggiormente in linea con i propri studi, la motivazione che spinge gli italiani a cercare un nuovo lavoro. Sono alcuni dei risultati del 'Randstad Workonitor', l’indagine sul mondo del lavoro realizzata in 33 paesi da Randstad, secondo player al mondo nei servizi di risorse umane, che nel secondo trimestre 2014 ha monitorato l’atteggiamento dei lavoratori verso la mobilità. La popolazione di riferimento dello studio (oltre 400 interviste in Italia) è costituita dalle persone con età compresa tra i 18 e i 65 anni che lavorano per almeno 24 ore alla settimana e che percepiscono un compenso economico per questa attività.

Ma i dipendenti del nostro Paese mostrano una posizione contraddittoria sull'impiego attualmente ricoperto: per il 62% è il 'lavoro ideale', ma allo stesso tempo per il 61% rappresenta 'solo un modo per guadagnarsi da vivere'. In media, i lavoratori sono pronti a mettersi alla ricerca di un nuovo posto, senza eccessiva fiducia in una svolta di carriera (il 58% è convinto che sia già determinata dal primo impiego) e senza troppa urgenza (per il 62% si può sempre cambiare lavoro in qualsiasi altro momento).

Facendo affidamento sulle agenzie di recruitment, che oggi sono scelte dal 76% di chi è disoccupato, ben sopra la media mondiale, e considerando il lavoro temporaneo sempre più un trampolino di lancio per un contratto a tempo indeterminato. Ma, nell'attesa di trovare un nuovo impiego, chi un lavoro ce l'ha se lo tiene stretto: oltre 8 lavoratori italiani su 10, più di tutti in Europa, sono concentrati nell'ottenere una promozione nel posto attuale.

“In Italia, si registra una curiosa parità tra chi sostiene di svolgere il lavoro ideale - commenta Marco Ceresa, amministratore delegato di Randstad Italia - e chi lo ritiene esclusivamente una fonte di reddito. In realtà, la motivazione a cambiare lavoro è elevata, giustificata dalla diffusa esigenza di migliorare il livello retributivo, oltre che all'aspirazione di un percorso di crescita professionale. Meno forte è la spinta verso un percorso più coerente con i propri studi, che fortunatamente appare un campo di maggiori conferme se 7 italiani su 10 dichiarano di svolgere un lavoro che si addice alla loro formazione e 6 su 10 sceglierebbero lo stesso percorso formativo se dovessero ricominciare da capo”.

“In questo contesto - prosegue Ceresa - e in un momento in cui la speranza della ripresa si accompagna alla difficoltà per il perdurare della crisi economica, emerge un dato positivo: cresce la fiducia degli italiani nelle società di recruiting. Una dimostrazione del buon livello di integrazione raggiunto nel mercato del lavoro italiano e una testimonianza dei risultati che le agenzie specializzate sono in grado di offrire ai lavoratori nella ricerca del proprio lavoro ideale e nella definizione del miglior percorso di carriera”.

Entrando nel dettaglio dei risultati del Randstad Workmonitor, dunque, per un numero significativamente elevato di lavoratori italiani (il 62%) l’attività ricoperta attualmente rappresenta il 'lavoro ideale', una posizione condivisa da uomini e donne e in generale a tutte le età. Contemporaneamente, però, il 61% dichiara che il proprio lavoro 'è solo un modo per guadagnarsi da vivere, niente di più'. Una sostanziale parità che ci differenza da altre aree del mondo, dove si delinea una prevalenza tra le due affermazioni.

Analizzando il saldo fra idealizzazione e funzionalità del lavoro nei 33 paesi oggetto di indagine, infatti, il Nord Europa (e nello specifico Norvegia, Austria, Lussemburgo e Danimarca) si distingue per la netta superiorità di chi sostiene di ricoprire già il suo lavoro ideale. Viceversa, in Asia (e in particolare Malesia, India, Singapore e Hong Kong, più l'eccezione dell'Olanda) prevale il pragmatismo di chi guarda al lavoro principalmente come fonte di reddito.

In generale, il 67% dei dipendenti italiani si dice soddisfatto di lavorare nel suo posto attuale. Quello che sembra un buon risultato, in realtà, posiziona l'Italia appena al 25° posto per soddisfazione tra i 33 paesi oggetto di indagine, ben lontana dall'80% del Messico, dal 79% della Norvegia, dal 77% dell'India. I lavoratori meno soddisfatti al mondo appaiono quelli di Hong Kong (46%) e Giappone (40%). In un aspetto, però, l'Italia si distingue nettamente in Europa: l'82% dei suoi lavoratori, più di tutti nel continente, oggi è concentrato nell'ottenere una promozione nell'impiego attuale (il 30% è 'fortemente incentrato', il 52% 'abbastanza concentrato'. Nel mondo, è superata solo da Messico (89%), India (86%) e Brasile (84%).

L'81% dei lavoratori italiani cambierebbe lavoro se potesse guadagnare di più (contro una media globale del 75% e una media europea del 70%). Il 73% invece lo farebbe per migliori possibilità di carriera (più della media globale, 69%, e molto più di quella europea, 61). E il 63% se ne trovasse uno più in linea con la propria formazione scolastica (anche in questo caso, più della media mondiale, 59%, ed europea, 51%).

Quindi, tra le motivazioni per cambiare il lavoro, una bassa coerenza con il percorso dell’istruzione è largamente subalterna alle ragioni economiche. Una posizione che trova conferma nel 71% di lavoratori secondo cui il lavoro svolto si addice alla propria formazione. E al 62% che, se dovesse ricominciare da capo, sceglierebbe lo stesso percorso formativo.

Se in Italia emerge una generale disponibilità alla mobilità, questa non significa un'urgenza di cambiare lavoro al più presto: il 62% degli italiani crede sia possibile farlo anche in qualsiasi altro momento (più della media globale, 58%). Ciononostante, in pochi credono sia possibile una vera svolta di carriera: quasi 8 dipendenti su 10 in Italia (per esattezza il 79%) ritengono che nei prossimi 3 anni svolgeranno un lavoro simile a quello attuale. E la maggioranza (il 58% contro il 44% della media globale) pensa che il primo lavoro ricoperto determini il resto della carriera.

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