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Senatori a vita, spunta la lettera inedita di Cossiga a Spadolini

04 agosto 2014 | 20.15
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Francesco Cossiga
Francesco Cossiga

Il 2 maggio del 1991 Giovanni Spadolini veniva nominato senatore a vita ai sensi dell'articolo 59, 2° comma, della Costituzione. Nel decreto di nomina il presidente della Repubblica Francesco Cossiga motivava la sua scelta con gli "altissimi meriti" acquisiti da Spadolini "nel campo scientifico, letterario e sociale".

Assumevano, dunque, rilievo nella decisione presidenziale non solo l'esperienza dello storico e del giornalista, ma anche quella dell'uomo politico che una consuetudine maturata attraverso precedenti nomine di senatori a vita (quali quelle di Cesare Merzagora, Ferruccio Parri, Pietro Nenni e Amintore Fanfani) consentiva di riferire il "campo sociale" richiamato nel testo costituzionale anche all'attività svolta nel settore della politica.

Ma il giorno stesso della nomina il presidente Cossiga inviava al neo senatore una lettera finora inedita e che viene pubblicata ora per la prima volta dalla rivista spadoliniana "Nuova Antologia", diretta da Cosimo Ceccuti. Cossiga annunciava in anteprima a Spadolini il suo "intendimento" a "procedere in tempi rapidi all'ulteriore nomina di senatori a vita, avvalendomi della facoltà conferitami dall'art. 59, secondo comma, della Costituzione". Si tratta di un documento che assume valore storico rispetto ad una vicenda di cui oggi resta soltanto una pallida traccia in alcuni manuali universitari, "ma che appare significativa per cogliere la dialettica che in alcuni passaggi della nostra storia repubblicana si è venuta a sviluppare tra il mondo della politica e quello della scienza del diritto costituzionale", per usare le parole del costituzionalista Enzo Cheli che firma un articolo introduttivo.

La vicenda in questione riguarda la complessa materia dei poteri che la nostra Costituzione ha conferito alla persona del capo dello Stato, figura che, come è noto, i costituenti finirono per costruire in termini del tutto originali, collocandola fuori dagli schemi classici sia del governo parlamentare che del governo presidenziale.

Per quanto concerne il potere presidenziale di nomina dei senatori a vita va ricordato che la Costituzione, al secondo comma dell'art. 59, prevede che "il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario".

Questa formulazione scaturì - dopo una lunga discussione che l'Assemblea costituente svolse nell'ottobre del 1947 sul tema della composizione della seconda Camera - dal voto su una proposta avanzata dall'onorevole Alberti che venne a determinare il superamento di altre proposte favorevoli a prevedere l'estensione della categoria dei senatori non eletti anche a taluni alti funzionari dello Stato da affiancare ai senatori di nomina presidenziale.

La discussione, ricorda Enzo Cheli nel saggio che precede la lettera inedita di Cossiga inviata a Spadolini, "fu in gran parte condizionata da due esigenze di fondo, che affiorarono sotto traccia nei vari interventi: quella di rendere omaggio, sia pure in misura molto limitata, alla tradizione del Senato regio e quella di valorizzare per il Senato una categoria di membri non elettivi, prescelti per il loro prestigio e la loro competenza, al fine di accentuare la differenziazione che si voleva stabilire nella composizione delle due Camere".

"La norma - che fu vista con particolare sospetto dai partiti della sinistra - nacque quindi come prodotto di una scelta contrastata che venne a trovare, nei primi anni di applicazione della Costituzione, un'applicazione piuttosto cauta. Basti solo ricordare che Luigi Einaudi, quale primo presidente della Repubblica, nominò i primi due senatori a vita (nelle persone di Guido Castelnuovo e di Arturo Toscanini) soltanto alla fine del 1949 per completare poi le sue scelte con altre tre nomine alla fine del 1950. E questo spiega anche perché - scrive Cheli - nei primi 36 anni di vita repubblicana i presidenti della Repubblica che si sono succeduti nel tempo si siano limitati a coprire con nuove nomine soltanto i seggi dei senatori a vita rimasti vacanti, ma sempre nel rispetto del numero complessivo di cinque seggi".

Questa prassi fu però interrotta sotto la presidenza di Sandro Pertini che nel 1984 pose per la prima volta il problema interpretativo sul secondo comma dell'art. 59 che viene illustrato nella lettera che qui si pubblica.

Il problema che Pertini, quale presidente della Repubblica, fece presente con una richiesta formale a Cossiga, quale presidente del Senato, veniva a riassumersi in questo interrogativo: il potere di nomina richiamato nel secondo comma dell'art. 59 della Costituzione va riferito (come da tradizione) alla carica presidenziale, con la conseguenza che i Senatori a vita di nomina presidenziale non possono mai superare il numero di cinque, ovvero (secondo l'interpretazione preferita dallo stesso Pertini) alla persona del presidente, con la conseguenza che ciascun presidente dispone del potere proprio di scelta di cinque Senatori a vita?

Cossiga, dopo aver consultato riservatamente vari esperti e la Giunta per le elezioni del Senato, esprimeva il suo parere favorevole all'interpretazione estensiva proposta da Pertini, che poteva così procedere, nel luglio del 1984, alla nomina di due Senatori a vita (nelle persone di Carlo Bo e Norberto Bobbio), in soprannumero rispetto alla soglia complessiva dei cinque seggi. Tali nomine venivano subito dopo formalmente convalidate sia dalla Giunta delle elezioni che dall'Assemblea del Senato.

Ma questo non impedì a Francesco Cossiga, una volta divenuto capo dello Stato (nel 1985), di mantenere la linea tracciata dal suo predecessore. La lettera che la rivista "Nuova Antologia" pubblica indirizzata da Cossiga a Spadolini in quanto presidente del Senato spiega, dunque, le ragioni di questa linea ed è "significativa", chiarisce Cheli, perché "porta la stessa data dell'atto di nomina di Giovanni Spadolini a senatore a vita: nomina che Cossiga, per rispetto dell'opinione contraria del suo destinatario, si premurò peraltro di compiere adottando l'interpretazione più restrittiva della norma costituzionale".

"Infatti la nomina di Spadolini, nel momento in cui avvenne, non alterò il numero complessivo dei seggi indicato dalla costituzione, ma avvenne a completamento di questo numero avendo provveduto alla copertura di un quinto seggio rimasto vacante a seguito della scomparsa di Cesare Merzagora".

"Per questo nella sua lettera Cossiga - sottolinea Cheli - precisa di non aver sino a quel momento utilizzato nella nomina dei Senatori a vita la 'dottrina Pertini', perché consapevole dell'esistenza nelle ultime legislature di procedimenti di revisione costituzionale del bicameralismo che venivano a investire anche il testo dell'art. 59. Procedimenti che, peraltro, in quanto incompiuti, lo ponevano ormai nella condizione di poter utilizzare tale 'dottrina' nella fase conclusiva del suo mandato presidenziale".

La scelta interpretativa adottata da Pertini, ancorché sostenuta da due ex presidenti della Repubblica (Saragat e Leone) e da alcuni autorevoli costituzionalisti (Ferrari, Manzella) fu oggetto di critiche, talvolta anche aspre, da parte della maggioranza della dottrina e di larghi settori del mondo politico. Lo stesso Spadolini, in più occasioni, non mancò di sottolineare la sua opinione contraria.

Da qui il preannuncio dell'imminente nomina, dopo quella di Spadolini, di altri quattro senatori a vita in soprannumero al fine di completare il numero delle nomine, a suo avviso, spettanti a ciascun presidente della Repubblica.

"Tali nomine poco dopo avvennero, ma furono le ultime effettuate in base alla 'dottrina Pertini' - ricorda Cheli - perché con le presidenze successive (a partire da Oscar Luigi Scalfaro) la prassi si assestò nuovamente e definitivamente - anche per una certa pressione esercitata dal mondo scientifico - sull'interpretazione originaria".

"Questa, in sintesi, è la vicenda che la lettera illustra: una vicenda certo secondaria della nostra storia repubblicana, ma che offre una testimonianza molto viva di quel rigore, di quella cura e di quella correttezza con cui una classe di «servitori dello Stato» si avvicinava allora al testo costituzionale e ne utilizzava gli strumenti. Una lezione che pare giusto ricordare oggi, in una stagione di riforme e riformatori che sembrano aver perso la memoria del passato", conclude Enzo Cheli.

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