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Energia, che cosa prevede la tassonomia Ue per il gas

03 febbraio 2022 | 18.38
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L'Italia ha abbandonato l'atomo dopo il referendum del 1987, confermato da un altro voto popolare nel 2011. Almeno per ora un ritorno all'energia atomica del nostro Paese non appare all'orizzonte: Francesco Starace, amministratore delegato dell'Enel, lo ha definito semplicemente "non realistico".

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L'atto delegato complementare al regolamento sulla tassonomia varato ieri dalla Commissione Europea interessa all'Italia più per quanto prevede sul gas che non per quello che prescrive sul nucleare, che interessa molto di più alla Francia e ad altri Paesi Ue. L'Italia ha abbandonato l'atomo dopo il referendum del 1987, confermato da un altro voto popolare nel 2011. Almeno per ora un ritorno all'energia atomica del nostro Paese non appare all'orizzonte: Francesco Starace, amministratore delegato dell'Enel, lo ha definito semplicemente "non realistico".

Il nostro Paese è rimasto un po' sottotraccia nel dibattito sulla tassonomia Ue, che individua le attività economiche sostenibili da un punto di vista ambientale (non vieta le altre). L'Italia è interessata soprattutto al gas naturale, che ricopre un ruolo molto importante nel nostro mix energetico.

Per il gas, l'atto delegato prevede che possano essere finanziate come attività di transizione, utili pertanto all'obiettivo della neutralità climatica, tre cose: la costruzione o l'esercizio di centrali elettriche a gas fossile; la costruzione, ristrutturazione e l'esercizio di impianti di cogenerazione ad alta efficienza che usano gas; la costruzione, ristrutturazione ed esercizio di sistemi di teleriscaldamento che usano gas. Ciascuna di queste tre fattispecie è soggetta a specifiche condizioni, piuttosto stringenti anche se un po' meno severe rispetto alla bozza iniziale.

Per la prima, le centrali elettriche a gas, viene fissata una soglia massima di emissioni: devono essere inferiori a 100 grammi di Co2 per chilowattora. Questo a meno che il permesso di costruirle non venga concesso entro il 31 dicembre 2030. In questo caso, si applicano una serie di condizioni. Primo, le emissioni dirette di gas serra devono essere inferiori ai 270 grammi di anidride carbonica per chilowattora oppure le emissioni annue non devono superare i 550 kg di Co2 per chilowatt, su un periodo di 20 anni.

Bisogna poi dimostrare che la stessa quantità di energia non può essere prodotta in modo efficiente da fonti rinnovabili, come l'eolico, il solare o l'idroelettrico; la nuova centrale deve sostituire un'altra centrale esistente e più inquinante, che brucia cioè olio o carbone (il gas inquina, ma meno).

La capacità produttiva, inoltre, non deve superare quella della centrale rimpiazzata di più del 15%. Inoltre, la centrale deve essere progettata in modo da poter utilizzare gas rinnovabili o a basso tenore di emissioni, ai quali deve passare al 100% entro il 2035 (la bozza dell'atto delegato prevedeva delle tappe intermedie).

E' una clausola pensata per evitare di produrre 'stranded assets': visto che costruire una centrale elettrica richiede un investimento cospicuo, è bene che sia progettata in modo da essere convertibile a gas meno inquinanti. Se così non fosse, si rischierebbe di ritrovarsi tra qualche anno con centrali che possono bruciare solo metano, cosa che frenerebbe la transizione climatica. Inoltre, la nuova centrale a gas deve portare ad una riduzione dei gas serra emessi per chilowattora di almeno il 55%, rispetto alla centrale a olio o a carbone che sostituisce.

Non solo: la centrale a gas dev'essere in un Paese che si è impegnato formalmente ad abbandonare il carbone. Inoltre, il rispetto dei criteri elencati deve essere verificato da un soggetto terzo indipendente, che deve trasmettere un rapporto alla Commissione. Infine, le emissioni fisiche di gas serra, come le fughe di metano, devono essere monitorate e le perdite vanno eliminate.

Per gli impianti di cogenerazione ad alta efficienza, cioè impianti che producono elettricità e calore da una singola fonte energetica anziché da fonti separate, la soglia è sempre quella di 100 grammi di Co2 per chilowattora, a meno che la licenza non sia emessa prima della fine del 2030. Anche qui, in questo caso si applicano altri criteri: le emissioni devono essere inferiori a 270 grammi di Co2 per chilowattora; la cogenerazione deve essere almeno il 10% più efficiente rispetto alla produzione separata di calore ed elettricità.

Inoltre, va dimostrato che il calore e l'elettricità prodotti non possono essere generati in maniera efficiente da fonti rinnovabili, per la medesima capacità; l'impianto, poi, deve sostituire un impianto di cogenerazione più inquinante, che bruci olio o carbone, e non deve eccederne la capacità produttiva. Anche in questo caso, l'impianto deve essere costruito in modo da poter bruciare gas rinnovabili o a basse emissioni, fonti alle quali deve passare al 100% entro il 2035 (anche qui sono state cancellate le tappe intermedie, resta solo l'obiettivo finale).

Ancora, la sostituzione del vecchio impianto con il nuovo deve portare ad un risparmio di almeno il 55% delle emissioni climalteranti, il Paese deve essersi impegnato ad uscire dal carbone e le perdite di metano vanno monitorate e riparate.

Praticamente identici i criteri previsti per le reti distrettuali di teleriscaldamento: anche per questi impianti, la soglia massima è di 100 grammi di Co2 per chilowattora, a meno che la struttura non sia autorizzata entro fine 2030. Se è così, tra l'altro, la soglia passa a 270 grammi di Co2 per kwh, l'impianto deve sostituirne uno più inquinante, senza superarne la capacità produttiva e riducendo le emissioni di almeno il 55%.

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