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La decarbonizzazione costa, non farla costa di più

Il settore ‘Hard to Abate’, composto di industrie altamente inquinanti, vuole assumere un ruolo leader nel processo di riduzione delle emissioni. Un report BCG fa il punto

Decarbonizzazione
Decarbonizzazione
15 novembre 2023 | 15.52
LETTURA: 5 minuti

La decarbonizzazione costa, ma costa ancora di più non farla. Sicuramente è una sfida importante e complessa, soprattutto per quei settori altamente energivori che usano come fonte i combustibili fossili e che sono più inquinanti e più difficili da riconvertire. Per i cosiddetti settori ‘Hard to Abate (HTA)’, infatti, i costi del rinnovamento sono molto elevati e non sempre le tecnologie sono sufficientemente mature per essere implementate nei processi produttivi.

Ma proprio questi settori vogliono essere in prima fila nel percorso ‘green’: nasce così l’Industrial Decarbonization Pact (IDP), che ha l’obiettivo di promuovere iniziative strategiche per accelerare la transizione ecologica. Parliamo di settori di grosso peso e rilevanza nel sistema industriale italiano quali Chimica, Cemento, Acciaio a ciclo integrato, Acciaio da forno elettrico, Carta, Ceramica, Vetro e fonderie.

La prima iniziativa messa in campo è stata uno studio in collaborazione con Boston Consulting Group, pensato per inquadrare la sfida verso la Carbon Neutrality in una cornice basata su numeri e fatti, aggiornato in questi giorni.

Italia indietro

E i numeri ci dicono che l’Italia, con le norme attuali, non centrerà gli obiettivi di piena carbonizzazione definiti dal pacchetto climatico europeo ‘Fit for 55’, che prevede la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% rispetto ai livelli del 1990 e la Carbon Neutrality entro il 2050. Secondo lo scenario ‘Policy correnti’ (Business as usual), citato da BCG, continuando così le emissioni al 2030 si ridurrebbero appena del 25% rispetto al 1990.

Non basta nemmeno il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) che Il governo sta predisponendo e che dovrà essere approvato entro giugno 2024. Il Piano identifica le leve su cui agire per ridurre le emissioni di CO2: energia rinnovabile, biometano, idrogeno, Ccus ed efficienza energetica. Vi troveranno spazio anche i settori HTA, per i quali sono necessari elevati investimenti, innovazione, nuove tecnologie. Ma comunque, sempre secondo il report BCG, le misure del PNIEC consentirebbero di ridurre le emissioni, al 2030, solo per il 38% rispetto al 1990. Quindi in modo del tutto insufficiente.

Il peso dei settori Hard to Abate

Tra i settori responsabili dell’emissione di gas serra in Italia, l’industria è prima per le emissioni dirette (quelle definite ‘Scope 1’, che derivano dalle attività produttive degli impianti). Registra infatti il 20% del totale italiano delle emissioni dirette di CO2 (84 milioni di tonnellate equivalenti). Di queste, il 64% è dovuto a settori Hard to Abate, che tuttavia ‘pesano’ anche a livello economico dato che realizzano circa 88 miliardi di euro di Valore Aggiunto Lordo (il 5% del totale nazionale) e occupano circa 700mila lavoratori.

Inoltre, giocano un ruolo chiave nell’intero sistema industriale italiano, essendo direttamente o indirettamente fornitori di molteplici settori a valle della catena del valore. Indebolire questi comparti dunque indebolirebbe l’intero sistema, provocando reazioni a catena.

I nostri settori HTA sono poi particolarmente penalizzati rispetto ai concorrenti europei per il costo dell’energia e per l’accesso alle fonti green, oltre che dalle previste modifiche al sistema di quote ‘cap&trade’ attualmente in uso, quello per cui è stato definito a livello europeo un tetto massimo (cap) alle emissioni prodotte. Il sistema prevede che ogni anno i soggetti interessati abbiano a disposizione un certo numero di quote di emissione, ognuna delle quali autorizza a emettere 1 tonnellata di CO2 equivalente. Se l’impresa produce emissioni superiori al cap assegnato, deve acquistare le quote mancanti sul mercato EU ETS, in caso contrario può venderle o accantonarle per un secondo momento (trade).

Tutto ciò può sembrare enormemente costoso, e lo è. Come costosa è la riconversione. Ma occorre confrontare questi costi con il ‘Do nothing Scenario’, ovvero quello in cui non si agisce.

Il ‘Do Nothing Scenario’

Oltre alle conseguenze ambientali, economiche, sociali e di salute legate al riscaldamento globale, un motivo in più per spingere verso la decarbonizzazione sono proprio le novità sul sistema delle quote, novità che porteranno a un concreto e rapido aumento dei costi per quelle industrie che rimarranno al palo. La Fase 4 dell’EU ETS (Emission Trading System) infatti prevede forti limitazioni che condurranno all’eliminazione dei crediti internazionali, mentre il pacchetto Fit for 55 ha proposto di accelerare il tasso di riduzione delle quote gratuite, passando dal 2,2% al 4,2% annuo.

Queste modifiche impattano in modo particolare sulle industrie energivore, maggiormente inquinanti. Basti pensare che secondo le stime citate dal report BCG, al 2030 oltre il 40% delle emissioni dei settori HTA non saranno coperte da ‘free allowance’ di CO2 equivalente.

Se non si fa niente, considerando anche che si prevede un aumento dei volumi di produzione, nel 2030 le emissioni dirette Scope 1 dei settori HTA arriverebbero a 62 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, addirittura più dei 54 milioni del 2019. La combinazione ‘crescita delle emissioni-fine delle quote gratuite’ significherà giocoforza un aumento dei costi: secondo BCG, i prezzi della CO2 aumenteranno dagli oltre 65 euro a tonnellata del 2021 a 90-160 euro a tonnellata nel 2030.

Tradotto in soldoni, da un lato il costo della transizione verde in ambito HTA potrebbe raggiungere i 20 miliardi di euro entro il 2030, con un aumento di 15 miliardi rispetto alla stima precedente. Ma dall'altro in Italia la mancata decarbonizzazione, prendendo in considerazione un prezzo della CO2 pari a 160 euro per tonnellata al 2030, potrebbe arrivare a costare circa 3,5 miliardi di euro all’anno.

Uno scenario che metterebbe seriamente in difficoltà l’industria, per la minore competitività rispetto alle aziende che offrono prodotti verdi, per la necessità di acquistare un quantitativo superiore di certificati per compensare la riduzione delle quote gratuite di CO2 e per l'aumento generale del prezzo dei certificati CO2. Una situazione che porterebbe a tagli dei costi e degli investimenti, a chiusure o delocalizzazioni, e infine la scomparsa di 300mila posti di lavoro. Già dall’ormai vicino 2030.

Decarbonizzare è una necessità, ed è possibile

Decarbonizzare dunque è una necessità per la sostenibilità e la competitività a lungo termine dell'industria italiana, ed è possibile farlo anche nei settori più inquinanti. BCG ha stimato che è possibile abbattere le emissioni delle imprese HTA di oltre il 95% al 2050, grazie soprattutto (per l’80% della riduzione) a un mix di tre leve strategiche quali: cattura, stoccaggio o riutilizzo della anidride carbonica derivante dai processi di produzione (35% della riduzione), Green Fuels come biogas, idrogeno (35% della riduzione), Elettrificazione (5-10%). Fondamentali saranno anche un intervento istituzionale che definisca un quadro normativo per sbloccare investimenti e cantieri, il sostegno alla ricerca e lo sviluppo di filiere produttive che agiscano come ulteriori leve di decarbonizzazione.

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