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Turchia: Bremmer, rischio deriva autoritaria? Erdogan non è Putin

30 ottobre 2015 | 11.36
LETTURA: 4 minuti

Ian Bremmer - (Foto Richard Jopson)
Ian Bremmer - (Foto Richard Jopson)

Il rischio di una deriva autoritaria in Turchia c'è stato in passato, ma Recep Tayyip Erdogan non è Vladimir Putin e le istituzioni del Paese restano sufficientemente forti e indipendenti per scongiurare questa minaccia. Ian Bremmer, politologo americano fondatore del think tank Eurasia Group, commenta così quanto sta avvenendo in Turchia, dove domenica si torna alle urne per l'elezione del Parlamento, dopo che al voto di giugno l'Akp non era riuscito ad ottenere la maggioranza.

"Il pericolo di una deriva autoritaria c'è stato negli anni scorsi, quando Erdogan voleva diventare presidente - ragiona Bremmer con l'Adnkronos - e poi con il tentativo di riscrivere la Costituzione per rafforzare i poteri della presidenza. Ma Erdogan non è Putin e la Turchia non è la Russia". E questo, sostiene il presidente di Eurasia Group, "è il messaggio arrivato dalle ultime elezioni, quando il suo partito della Giustizia e sviluppo ha perso per la prima volta la maggioranza assoluta in oltre un decennio, rendendo impossibile la riforma costituzionale".

Un risultato analogo Bremmer se lo aspetta dal voto di domenica: "Il partito di governo arriverà prima, ma senza la maggioranza che gli serve per evitare di formare una coalizione. La Turchia ha molti problemi, ci saranno molti scontri all'interno dell'Akp ed Erdogan continuerà ad avere un approccio dalla mano pesante con l'opposizione e chiunque lo critichi". Ma, è convinzione del politologo, "le istituzioni del Paese, i partiti di opposizione, i tribunali, i media e la polizia, restano forti e indipendenti abbastanza da superare questa minaccia".

Quanto all'impegno della Turchia nella regione, nel giorno dei colloqui di Vienna sulla Siria, Bremmer si chiede che ci sia qualcuno che possa avere un ruolo costruttivo in Medio Oriente. "Ho molti dubbi in proposito - dice - Solo in Siria ci sono così tante parti in conflitto e nessuna di queste è perfettamente allineata. La Turchia vuole colpire i curdi, contenere lo Stato islamico e indebolire il presidente Bashar al Assad".

Dal canto suo, spiega ancora l'analista, "la Russia e l'Iran vogliono sostenere Assad attaccando i ribelli sunniti sostenuti dagli Stati Uniti. E gli Stati Uniti vogliono proteggere i curdi ed i ribelli sunniti per distruggere l'Is e indebolire Assad. Infine, i sauditi sono concentrati quasi esclusivamente sull'obiettivo di sbarazzarsi del presidente siriano".

In questo contesto, sottolinea Bremmer, "la Turchia, se lo vuole, può aiutare nella battaglia contro lo Stato islamico. Il suo valore principale consiste nel dare accesso alla Nato alla base di Incirlik ed allo spazio aereo turco, ma la sua guerra contro i curdi siriani complica seriamente i calcoli di tutti".

Quanto ai colloqui di Vienna ed al ruolo dell'Iran, il politologo americano sottolinea come questo sia "cruciale" e come non ci siano alternative. "E' cruciale che l'Iran sia coinvolto - dice - Avrà l'ultima parola su una soluzione definitiva del conflitto siriano ed è inutile sostenere diversamente".

Certo, ammette Bremmer, "a Vienna c'è un gruppo composito, ma nessuna soluzione sarà credibile senza il coinvolgimento di tutti gli attori principali". Per ora, comunque, "non si potrà ottenere nulla dal momento che si combatte in modo intenso sul terreno".

Infine, parlando del ruolo della Russia, il presidente di Eurasia non crede che Vladimir Putin sia pronto a mollare Bashar Assad. "Assolutamente no - scandisce - Putin chiede elezioni in Siria perché sa che solo Assad può vincerle, dal momento che le zone sotto il controllo dei ribelli non sono in grado di partecipare. La sua sopravvivenza è essenziale per l'allargamento dell'influenza russa in Medio Oriente".

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