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Ustica, le sentenze penali

25 giugno 2020 | 13.17
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Il procedimento penale sulla strage è terminato in Cassazione nel 2007 . Lo scopo era di chiarire le responsabilità sul presunto depistaggio

Corte di Cassazione (Fotogramma)
Corte di Cassazione (Fotogramma)

Sulla strage di Ustica che il 27 giugno del 1980, esattamente 40 anni fa, costò la vita a 81 persone fra passeggeri e componenti dell’equipaggio a bordo del Dc9 della compagnia Itavia, si è svolto un processo penale conclusosi in Cassazione il 10 gennaio 2007. Un processo che se pure aveva come scopo la ricerca della verità sul presunto depistaggio di cui erano accusati 4 generali dell'aeronautica (Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Zeno Tascio e Corrado Melillo), inevitabilmente ha finito per indagare anche le cause di quella strage.

La sentenza del giudice istruttore Priore (1999)

Il giudice istruttore Rosario Priore, nell’agosto del 1999, firmò la sua “sentenza-ordinanza” di rinvio a giudizio concludendo che si trattò di “un atto di guerra” e che l’unica ipotesi “che resta in piedi, anche se non con la massima fermezza”, per spiegare la caduta del Dc9, era una “quasi-collisione” (near collision) che - hanno sostenuto le difese dei generali al processo - non ha precedenti nella storia dell'incidentistica aeronautica. In sostanza, scrisse Priore, un velivolo probabilmente militare si nascose vicino al Dc9, quando ad un certo punto il pilota intuì che era sotto attacco (forse da parte di un secondo aereo, forse di un missile), e così accelerò avvicinandosi ancora più al Dc9, fino a superarlo; sorpasso che causò la rottura dell'ala del velivolo civile” e quindi una serie di eventi che ne provocò, a causa della destrutturazione del velivolo, la successiva caduta. Fin qui le conclusioni di Priore, che vennero, però, superate dalle sentenze penali.

La sentenza della Corte d'Assise (2004)

La prima, datata 30 aprile 2004, fu emessa dalla Corte d'Assise di Roma che, a fronte delle richieste di condanna dei pm Erminio Amelio, Maria Monteleone e Vincenzo Roselli (6 anni e 9 mesi, di cui 4 anni condonati, per Bartolucci e Ferri, assoluzione per non aver commesso il fatto per Tascio e Melillo), assolse tutti gli imputati accusati di alto tradimento in relazione al depistaggio. Per un capo d’imputazione, quello attinente l'informazione alle autorità politiche della presenza di altri aerei la sera dell'incidente, il reato contestato a Ferri e Bartolucci venne dichiarato prescritto. I giudici, infatti, ritennero che i due avessero sì turbato “l'esercizio delle attribuzioni, prerogative o funzioni” del Capo dello Stato e del governo, ma non attraverso un “impedimento” per le autorità governative, punito con 10 anni di carcere, ma fornendo erronee informazioni, reato punito invece con la reclusione da 1 a 5 anni e dunque prescritto in circa 7 anni.

La sentenza di appello (2005)

Nonostante l’assoluzione e la prescrizione per un capo d’imputazione, anche i legali dei due generali presentarono ricorso in appello (lo stesso fece la procura per i soli Bartolucci e Ferri). Il 15 dicembre del 2005 giunse la sentenza d’appello, che assolse entrambi i generali con formula piena, il fatto non sussiste, anche per l’omessa comunicazione all’autorità politica. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici d’appello scrissero: “La Corte era ben conscia dell’impatto negativo di un’ulteriore sentenza assolutoria anche nei confronti dei due generali, ma a fronte di commettere un’ingiustizia, perché tale sarebbe stata la conferma della sentenza (di primo grado ndr) o una condanna, andare contro l’opinione pubblica non costituisce un ostacolo”.

La sentenza della Cassazione (2007)

Il 10 gennaio del 2007 a pronunciarsi definitivamente fu la prima sezione penale della Corte di Cassazione dichiarando inammissibile il ricorso della procura generale contro l'assoluzione di Bertolucci e Ferri e assolvendo i generali “perché il fatto non sussiste”. Nelle motivazioni, gli Ermellini scrissero, ad esempio, che la sentenza-ordinanza di Priore aveva acquisito “un’imponente massa di dati dai quali peraltro non è stato possibile ricavare elementi di prova a conforto della tesi di accusa”. La stessa Suprema Corte scrisse che “la sentenza d’appello, ben lungi da una valutazione perplessa, secondo quanto sostenuto dalle parti civili ricorrenti, ha ritenuto invece in modo chiaro ed esplicito che la prova dei fatti contestati sia del tutto mancata” e che l’assoluzione degli imputati era la conseguenza della “mancanza di prova” e non era dovuta “all'insufficienza o alla contraddittorietà della stessa”.

A parte l’innocenza dei generali sancita dalle sentenze, dirimenti per chiarire le cause della strage furono le motivazioni della sentenza di primo e secondo grado, relative soprattutto alla presenza di traffico aereo intorno al Dc9 la sera del 27 giugno 1980 e, ancora più nello specifico, ai due segnali spuri (plots radar) apparsi sullo schermo del radar Marconi di Ciampino in uso in quegli anni. Segnali passati alla storia con la numerazione “-12” e “-17” e che, nell’ipotesi accusatoria, avrebbero potuto corrispondere alla traccia di un aereo nella zona del Dc9. Ma se la Corte d’Assise, in primo grado, concluse che i dati del radar Marconi, seppur “dagli elevati margini di errore”, fossero indicativi “con una probabilità apprezzabile della presenza di almeno un velivolo intersecante con la rotta del Dc9 Itavia”, la Corte d’Assise d’appello sentenziò che “tutto il complesso ragionamento effettuato dalla Corte di primo grado per addivenire all’esistenza dei plot -12 e -17 e, quindi, ma con un salto logico non giustificabile, all’esistenza di un velivolo che volava accanto al Dc9 Itavia, è supportato solo da ipotesi, deduzioni, probabilità e da basse percentuali e mai una sola certezza”.

Per i giudici d’appello, dunque, “non è stato raggiunto, cioè, un risultato di ragionevole certezza su un presunto velivolo che avrebbe volato accanto o sotto il DC9 Itavia anche successivamente con mezzi di ricerca certamente più completi ed esaurienti di quelli in essere nel 1980 ma sono emerse solo mete probabilità di significato, quindi, dichiaratamente neutro”. E ancora: “Nessun velivolo - a parte le tracce dei due plot del vecchio radar Marconi su cui è stata costruita tutta l'impalcatura dell'Accusa - risulta aver attraversato la rotta dell'aereo Itavia non essendo stata rilevata traccia di essi dai radar militari e civili le cui registrazioni sono stati riportati su nastri da tutti unanimemente i tecnici ritenuti perfettamente integri”. Per la Corte d’Assise d’Appello “tutto il resto è fantapolitica o romanzo”.

In definitiva, le ipotesi “dell'abbattimento dell'aereo ad opera di un missile o di esplosione a bordo non hanno trovato conferma dato che la carcassa dell'aereo non reca segni dell'impatto del missile e, nel caso della bomba all'interno dell'aereo, bisogna ritenere che l'ignoto attentatore fosse a conoscenza del dato che l'aereo sarebbe partito da Bologna con due ore di ritardo per poter programmare il timer con due ore di ritardo per l'esplosione visto che di criminali kamikaze che potessero essere a bordo allora non vi era traccia. Tutto il resto, non essendo provato, è solo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda, un intervento della Libia, la presenza sul posto del suo leader Gheddafi e così via fino a cercare di escogitare un (falso) collegamento con la caduta di un aereo Mig di nazionalità libica avvenuto in data successiva”.

Va infine detto che la bomba a bordo come causa dell’esplosione in volo del Dc9 era l’ipotesi del collegio peritale presieduto da Aurelio Misiti (preside della facoltà di Ingegneria dell’università “La Sapienza” di Roma), di cui faceva parte Frank Taylor, il massimo esperto mondiale d’incidentistica aeronautica, che così concluse le sue analisi tecniche: “Non mi interessano quanti aerei c’erano o avrebbero potuto esserci nelle vicinanze del Dc9 perché è chiara la prova che una collisione o una “near collision”, che non ha precedenti nella lunghissima storia dell’incidentistica aeronautica, non può aver causato il danno trovato nell’area della toilette posteriore: la causa della tragedia non può che essere la bomba a bordo”. Ad oggi, dunque, rimane aperta l’inchiesta della procura di Roma, che pochi giorni fa ha portato all’acquisizione presso la redazione di Rainews24 dell’audio contenuto nella scatola nera del Dc9. Si tratta della voce di uno dei piloti del velivolo Itavia mandata in onda dal canale Rai, ma se finora di quel brevissimo tratto di audio si conosceva solo la parte iniziale, “Gua”, dopo la “ripulitura” tecnica della traccia sarebbe possibile sentire anche il seguito, “Guarda cos’è”.

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