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Malattie rare: immunodeficienze primitive, diagnosi anche dopo 20 anni

Malattie rare: immunodeficienze primitive, diagnosi anche dopo 20 anni
26 febbraio 2016 | 17.43
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Otto o più infezioni ricorrenti nell'arco di un anno, terapia antibiotica inefficace, malanni dell'apparato respiratorio, afte o infezioni ricorrenti; con scarso aumento di peso nei bambini. Sono alcuni dei sintomi che possono portare alla diagnosi di Immunodeficienza primitiva, un gruppo di malattie rare, congenite e croniche causate da alterazioni del sistema immunitario che comportano una aumentata suscettibilità alle infezioni. Se si manifestano in età pediatrica la diagnosi è in genere rapida, ma nel caso dell’adulto si attendono anche 10-20 anni dai sintomi.

E la necessità di una terapia sostitutiva cronica impegna i pazienti e le famiglie a un adeguamento dello stile di vita spesso in maniera gravosa sul piano personale, sia psicologico che sociale. Esistono oltre 250 tipi diversi di immunodeficienze primitive, in continuo incremento. Quasi ogni mese infatti viene scoperto un nuovo difetto genetico riconducibile ad un nuovo deficit immunitario. "Le immunodeficienze primitive si manifestano in pazienti con un sistema immunitario che presenta difetti funzionali o quantitativi degli elementi cellulari o proteici che intervengono nei meccanismi di controllo delle infezioni e della crescita neoplastica", ha spiegato di recente Carlo Agostini, immunologo dell'Azienda ospedaliero universitaria di Padova, in un convegno sul tema.

Nel caso delle Immunodeficienze primitive da carenza di anticorpi, i pazienti, non essendo in grado di avviare la corretta risposta immunitaria nella produzione di anticorpi, devono essere trattati in maniera cronica con terapia sostitutiva con immunoglobuline estratte dal plasma di individui sani. A soffrirne nel mondo sono più di 6 milioni di persone tra bambini e adulti, ma solo una piccola percentuale di questi casi è a oggi diagnosticata. In effetti, l’esatta incidenza globale di questo gruppo di malattie rare non è nota.

Il ritardo diagnostico è purtroppo la regola. "Si presume che circa dal 70% al 90% degli individui affetti da una immunodeficienza primitiva - ha continuato Agostini - pur vivendo in Paesi con sistemi sanitari evoluti, non riceve una diagnosi corretta in tempi accettabili. Con inevitabili conseguenze per il paziente. In molti casi si creano nel tempo danni d'organo irreversibili provocati dalle continue infezioni". Nei casi più comuni, comunque, la terapia è sostitutiva ed è salvavita. "In questi malati si cerca di sostituire gli anticorpi che il paziente non produce, grazie all'utilizzo di preparati ricchi di anticorpi ottenuti da donatori".

Il trattamento endovenoso permette la somministrazione di ampi volumi di immunoglobuline (che in un paziente medio oscillano tra 400 e 600 ml) con una frequenza d’infusione di 3 o 4 settimane, ha ricordato l'esperto. Questa terapia necessita di una supervisione medico-infermieristica, pertanto richiede che il paziente si rechi presso la struttura ospedaliera per ogni ciclo di cura. Il trattamento per via sottocutanea ha semplificato la somministrazione, rendendola possibile anche a livello domiciliare. Tuttavia, dal momento che i quantitativi che possono essere infusi per via sottocutanea sono notevolmente inferiori (massimo 20 ml) rispetto a quelli per via endovenosa, questa modalità richiede una frequenza settimanale attraverso più siti di iniezione (4/6).

"Oggi - ha ricordato Agostini - è disponibile la terapia con immunoglobuline sottocute facilitata, tramite l'uso concomitante di un enzima, la ialunoridasi, in grado di diffondere rapidamente le immunoglobuline nel tessuto sottocutaneo. Con questo preparato è possibile rarefare il ritmo delle infusioni che possono essere somministrate non più settimanalmente ma ogni 3 settimane". E da pochi giorni è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la determina Aifa (Agenzia italiana del farmaco), con cui al trattamento è stata riconosciuta la rimborsabilità come farmaco di classe A.

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